ANTICHITÀ GRECHE PUBBLICHE, SACRE E PRIVATE

MANUALI HOEPLI

VIGILIO INAMA

ANTICHITÀ GRECHE

PUBBLICHE, SACRE E PRIVATE

Terza edizione con modificazioni e aggiunte

DI

DOMENICO BASSI ep EMIDIO MARTINI

CON 16 TAVOLE E 7 INCISIONI

Ristampa anastatica autorizzata dall'editore Ulrico Hoepli

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MANUALI HOEPLI

VIGILIO INAMA

ANTICHITÀ GRECHE

PUBBLICHE, SACRE E PRIVATE

Terza edizione con modificazioni e aggiunte

DI

DOMENICO BASSI ep EMIDIO MARTINI

CON 16 TAVOLE E 7 INCISIONI

ULRICO HOEPLI

EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA MICANO (SAS $)

\A\ Hi 1924 Vers”

[ISBN 88-205-0040-X] | Copyright © 1976

Istituto Editoriale Cisalpino-Goliardica Via Rezia, 4 - Milano

Finito di stampare nel maggio 1987 Tipolitografia Dini - Modena

AVVERTENZA

Non poche e non sempre leggiere sono le modifi- cazioni di vario genere che abbiamo apportate alla seconda edizione del Manuale dell’ Inama; parecchie sono anche le aggiunte e le soppressioni. S'intende che pur così modificato nulla ha perduto del suo carattere di libro prevalentemente scolastico; anzi dovrebbe servire più e meglio, in piena conformità ai programmi vigenti, agli alunni dei vari ordini di scuole a cui è destinato. Per quelli di loro che o non hanno o non hanno ancora l'insegnamento della lingua greca abbiamo dato di tutte le parole greche la translitterazione secondo la pronuncia.

Napoli, 31 marzo 1924

D. Bassi E. MARTINI,

INDICE

AVVERTENZA . . È INTRODUZIONE. 5 3 I. La Grecia d’Omero .

II, Antichità pubbliche.

L’Attica e Atene: Il Governo

Pubblici funzionari e impiegati Amministrazione giudiziaria . Amministrazione finanziaria , Polizia urbana è . . Amministrazione della guerra

La Laconia e Sparta . i È

Creta . % . Le colonie . .

III. Antichità sacre.

Tempî e altari . Sacerdoti e indovini

Preghiere, sacrifizi e offerte

Oracoli e misteri . Feste e .

Pag. VII

LI

52

62 73 75 88 I10 IIS

123 131 I4I 148 159

x Indice

Pag. IV. Antichità private. La famiglia , è È : > 7 n 9 " SIT

La casa e l’arredament. 5 7 a. î 7 7 . 206 Indumenti . . È 9 Ò 5 ai 3 = TAI Alimenti, simposii x è 5 . a 3 È an (0222 Occupazioni, industrie, commerci v a a 3 N25 Divertimenti e giuochi % î 5 7 a a i d27 Viaggi . È o . A 7 n 7 È È 230:

Medici , 3 6 È È x È " È 5 ‘NE 23T Funerali " È È î È È - - È SEA

INDICE DELLE TAVOLE E DELLE INCISIONI

Oplita . i n 3 4 i Atena * . . . Frontone del tempio di Egina Acropoli di Atene , . . sc» Acropoli di Atene , È z . Fronte di tempio a due colonne , $ Fronte di tempio a sei colonne . ; Atrio del tempio della Vittoria senz’ali Tempio di Zeus in Olimpia . .

Il Theseion in Atene ,

Rovine del Partenone È Grotta di Apollo in Delo A 3 3: Teatro di Dioniso in Atene . î ‘Veduta generale di Olimpia . Ingresso alla tomba degli Atridi .

Il Mausoleo di Alicarnasso , 3 è

Pianta di tempio ampRipréstylos . Statua di Zeus nel tempio di Olimpia , Qinochoe. Vaso per vino

Kylix. Calice per vino . . . . A'athos, Tazza per attingere dal cratere ArJballos, Vasetto unguentario , . Rhvton. Vaso per bere. . È a 3

Pag. 78 80

108 114 120 124 128 134 140 148 169 179 237 239

Pag. 127 ‘128 214 ivi 215 ivi ivi

INTRODUZIONE

Alla civiltà greca, che si venne svolgendo dal secolo IX o VIII a. C. in poi, precedette un’altra civiltà assai più antica, dalla quale la greca prese molti dei suoi elementi fondamentali. Potrebbe anzi dirsi che essa non ne sia stata che la continuazione, ovvero una fase e uno svolgimento ulteriore,

Questa civiltà preellenica suol chiamarsi micenea, perchè a noi venne rivelata la prima volta dalle im- portantissime scoperte archeologiche, degli ultimi decenni del secolo scorso, di Enrico Schliemann {1820-1890} fra le rovine dell'antica città di Micene nell’Argolide. Ma ulteriori scoperte, fatte in altre parti dell’antica Grecia, e soprattutto nell’isola di Creta da commissioni di dotti, specialmente inglesi e italiani, mostrarono che centro fiorentissimo, e forse più di ogni altro importante di questa civiltà anteriore alla greca, era appuntò Creta, cosicchè fu anche detta civiltà cretese o minoica, da Mi- nosse (Mivos, Minos), il leggendario re dell’isola. Ma meglio ancora può denominarsi civiltà dell'Egeo, giacchè essa si diffondeva, presso a poco uguale

1 INAMA.

2 Introduzione

o uniforme, su quasi tutte le isole di questo mare nonchè sulle coste orientali della Grecia e occiden- tali dell'Asia Minore, che lo rinchiudono ad est e ad ovest.

Questa civiltà infatti nella penisola greca fiorì in particolare sulle coste che volgono ad oriente, e principalmente in tre punti: nella Tessaglia a set- tentrione, nella Beozia e nell’Attica, nella sua parte mediana, nell’Argolide, e in generale in tutto il Peloponneso, nella sua parte più meridionale. Pare invece che affatto estranee ad essa rimanessero le regioni interne e occidentali della penisola.

Nell’ Asia Minore alla civiltà micenea partecipa- rono segnatamente gli abitanti delle Spiagge bagnate dall’Egeo, dove più tardi troviamo le numerose e fiorenti colonie greche degli Eoli, degli Ioni e dei Dori.

Questa civiltà preellenica, comunque voglia de- nominarsi, si svolse rigogliosa e toccò il suo mag- giore sviluppo nella seconda metà del secondo mil- lennio anteriore: all’èra cristiana, vale a dire dal 2000 al 1000 a. C.

A giudicare dai prodotti dell’arte e dell’industria che gli scavi archeologici vennero e continuamente vengono mettendo alla luce, dobbiamo dire che questa civiltà si accostava per certi suoi caratteri a quelle antichissime dell’Egitto, della Babilonia, dell’Assiria, della Fenicia; ma nello stesso tempo essa aveva pure lineamenti e tratti suoi particolari, che le davano un’impronta sua propria, e ne fa-

Introduzione 3

cevano una civiltà speciale, diversa da ogni altra, così da quelle schiettamente orientali come dalla posteriore civiltà ellenica.

*

Si è domandato che popolo fosse quello che creò e svolse la civiltà micenea, e alla domanda fu ri- sposto assai ‘variamente finora dai dotti. Alcuni misero innanzi il nome dei Fenici, altri quello dei Cari, dei Lelegi, dei Pelasgi o d'altri ancora. Ma probabilmente la più giusta risposta è che non un popolo solo, ma più popoli, diversi per nazionalità e per lingua, occupassero contemporaneamente le isole e le coste sulle quali questa civiltà si esten- deva, e che tutti, quali più quali meno, ad essa partecipassero, e per parte loro contribuissero al suo ulteriore sviluppo e perfezionamento. Avvenne cioè in quei secoli nelle regioni dell'Egeo a un dipresso ciò che oggidì avviene, in assai più larga estensione di terre, nella nostra: Europa, dove molti popoli di nazionalità diversa e che parlano linguaggi affatto diversi partecipano tutti egualmente ad una medesima civiltà, in ogni punto presso a poco uni- forme ed eguale, e tutti contribuiscono al suo ulte- riore progresso.

Fra i popoli che crearono o adottarono la civiltà micenea, importata certamente in parte dall’oriente, v’ebbero senza dubbio anche genti di lingua e di nazionalità greca. Alla storia greca infatti, che di-

4 Introduzione

temo positiva, la quale incomincia intorno al se- colo IX, precede una lunga storia leggendaria, che a noi fu conservata nei poemi epici, attri- buiti ad Omero e ai poeti ciclici, e negli scritti dei mitografi posteriori. È la storia dei tempi che diciamo eroici, che ci parla delle imprese maravi- gliose d’Eracle (Ercole), di Teseo e di altri semidei © eroi, di spedizioni guerresche collettive di prin- cipi e di popoli contro Tebe, contro Troia, contro altre città. Quanto di vero, quanto di fantastico vi sia in tali leggende noi non potremo distinguere mai; ma che un qualche fondamento di vero, quanto pur vogliasi tenue ed esiguo, in esse si trovi, non potrebbe dovrebbe negarsi. La vivace e mobile fantasia del popolo e l’arte dei poeti trasformarono in leggenda, cancellando ogni traccia di crono- logia, un’antica storia che risale senza dubbio ai secoli anteriori al mille e ‘rientra quindi in piena età micenea. Ammettendo pure che i singoli avve- nimenti narrati siano alterati, così da doversi re- legare senz'altro nel campo delle favole, che siano pura invenzione i nomi degli eroi e dei re e dei principi celebrati nei canti de’ poeti, non po- tremo tuttavia negare ogni fede all’esistenza reale delle antichissime città, di cui ci ripetono il nome, e degli Stati ricchi e fiorenti, di cui ci parlano. Che Troia e Micene, Argo e Tirinto, Sparta, Tebe dalle sette porte e altre molte città abbiano avuto un periodo antichissimo di floridezza e di po- tenza, come i poeti ci narrano, poteva forse porsi

Introduzione 5

in dubbio, da una critica molto severa e troppo scettica, fino a poco tempo fa. Ma ora che la zappa dell’archeologo, prudentemente diretta, riuscì a porre allo: scoperto i resti venerandi di antichi e suntuosi palazzi e regge e città e tombe princi- pesche, e i segni non dubbi di una civiltà assai evoluta e progredita in tutti i luoghi appunto, dove la leggenda popolare e i versi del poeta pongono le sedi dei loro celebrati re ed eroi, noi non pos- siamo più dubitare che un fondamento di verità storica formi il substrato della leggenda, e che siano realmente esistite le città e gli Stati di cui il poeta ci narra maravigliato la sorprendente ricchezza e la larga potenza.

Se questo dobbiamo ammettere, perchè non do- vremo anche ritenere che le condizioni etnografiche del paese fossero realmente quali ci vengono pre- sentate dai poeti e dalla leggenda? Se questi pon- gono genti greche in Argo e in Micene, in Sparta e in Tebe, sulle coste della Tessaglia e in parecchie isole dell'Egeo, e pongono invece genti non greche in Troia, sulle coste dell'Asia Minore, in Creta e in altre isole dell'Egeo, perchè non dovremo cre- dere che in questo pure essi riproducano con esat- tezza la verità storica e le condizioni reali del paese? E se la leggenda rimonta appunto, come si è detto, all’età micenea, perchè non ne dedurremo che essa rispecchi le condizioni etnografiche di questa età? Poteva il popolo, potevano i poeti immaginare a questo proposito una condizione diversa da quella.

6 Introduzione

reale? E quale spinta o ragione avrebbero avuto per farlo? A noi pare quindi che le condizioni etno- grafiche del mondo greco e delle regioni dell'Egeo, quali ci sono descritte nell’ Zîade, nell’ Odissea e negli altri poemi epici, di cui ci rimase solo qualche frammento o qualche estratto, debbano corrispon- dere al vero; e poichè esse devono porsi molto più in su del 1000 a. C., coincidono perfettamente con l’età a cui abbiamo accennato. Omero dunque de- scrive la Grecia dell’età micenea.

Lasciamo da parte la questione se l’autore o gli autori dei poemi che vanno sotto il nome di Omero siano vissuti nel secolo IX o prima o poi; se siano vissuti piuttosto nella Tonia che nella penisola sreca, nel Peloponneso o in altra sua parte. Dell’età e della patria di Omero nulla di certo seppero gli anti- chi, nulla di certo sappiamo noi. La questione deve ora esser ripresa sotto la luce delle nuove e più recenti scoperte archeologiche. Ma ciò che parrebbe potersi fin d’ora affermare è che il mondo descritto da Omero e le condizioni della Grecia e dell’Egeo rispecchiate nei suoi poemi, nelle parti per lo meno indubbiamente più antiche di essi, sono quali erano prima dell’invasione dei Dori, la quale chiude appunto l’età micenea, per aprire la nuova età, che potremo dire schiettamente ellenica O greca,

Introduzione y

*

L’invasione dorica, di cui non si sarebbe dovuto mai mettere in dubbio la realtà storica, suol porsi nel secolo XII a. C., e fu essa appunto una delle cause, forse la principale, del decadimento e, in qualche punto della penisola greca, della totale distruzione della civiltà micenea.

La penisola greca e alcune isole dell’Egeo ad essa più vicine erano certamente abitate da genti greche molti secoli prima della venuta dei Dori. Sono le genti appunto che il poeta designa col nome di Achei, di Argivi, di Danai, le genti stesse cioè che più tardi saranno dagli scrittori greci di- stinte coi nomi di Ioni e di Eoli. Queste genti greche, quelle di loro, per lo meno, che abitavano sulle coste orientali della penisola e nel Pelopon- neso, parteciparono, come si è detto, largamente alla civiltà micenea, e avevano raggiunto un alto grado di progresso nella vita politica e civile, nelle industrie e nei commerci. Popolo rozzo invece e in- colto ancora erano i Dori, quando penetrarono dal settentrione nella penisola e vi si vennero sempre più allargando. In confronto dei loro confratelli Achei, che già da secoli occupaàvano la penisola ed erano assai inciviliti, i Dori potevansi ben dire popolo ancor barbaro. L'invasione dorica fu quindi per la Grecia una vera invasione di barbari, non molto diversa, e certo analoga, a quelle delle genti

8 Introduzione E INR cl LEA

settentrionali, che scesero, sul declinare dell’im- pero romano, nella nostra Italia. Come queste di- strussero o contribuirono a distruggere la civiltà romana, così l'invasione dorica distrusse nella pe- nisola ellenica la civiltà achea, che era, come di- cemmo, civiltà micenea. E come alla fiorente ci- viltà e coltura romana tenne dietro la lunga età di decadimento e rozzezza che denominiamo medioevo, così egualmente nella Grecia alla florida civiltà achea o micenea succedette un'epoca di decadimento. La storia antica della Grecia ebbe dunque essa pure il suo medioevo, che dal nostro non si distingue, se non per una assai più breve durata e per una più ristretta estensione di territorio. All’invasione dorica infatti seguono circa tre secoli di oscurità e, potremo dire, di barbarie. Su questo periodo della storia greca, che va suppergiù dal 1000 all’ 800 0 700 a. C., regna la più grande oscurità. È un intervallo privo di tradizioni e di notizie sicure; una lacuna separa i tempi descritti da Omero da quelli in cui ricominciano a fiorire le lettere coi primi poeti lirici, e la civiltà con le si- gnorie dei tiranni e con la fondazione delle nuove colonie ad oriente e ad occidente della penisola. Spenta la civiltà primitiva, la Grecia sonnecchia inerte e incerta sul proprio avvenire. Solamente verso il secolo VIII va qua e ridestandosi come a nuova vita, e dalle rovine dell'età micenea spunta la nuova civiltà ellenica. È il risorgimento greco, analogo al nostro dei secoli XIV e XV; come

Introduzione 9

questo richiama in vita, modificata e adattata ai nuovi tempi, l’antica civiltà romana, così quello l’antica civiltà achea, che i poemi omerici rispec- chiano.

Per ciò appunto della civiltà omerica abbiamo preferito discorrere separatamente e considerarla nel suo insieme.

I

LA GRECIA D'OMERO

% 1. GLI Srati. La Grecia, quale ci è rappre- sentata nei poemi d’Omero, non è una creazione fantastica del poeta, cui nulla corrisponda di reale. Che gli avvenimenti da lui narrati siano davvero accaduti, che gli eroi e le persone di cui discorre siano realmente vissuti, che proprio tutte le città e i luoghi ch’egli nomina e descrive siano real- mente esistiti, noi non possiamo affermare negare con sicurezza. Per altro un fondamento sto- rico alle leggende da lui raccolte e dall’arte sua vivificate deve esserci, benchè il discernere quanto in ciò vi sia di vero e quanto d’immaginario è cosa per noi ormai impossibile. Ma cerchiamo pure di sottrarci all’illusione ch’egli esercita su noi e al fascino sotto il quale ci sentiamo avvinti nella let- tura degli immortali suoi versi, e releghiamo. nel campo delle favole i racconti e le descrizioni della sua ricca fantasia; dovremo pur sempre riconoscere e ammettere che l'ambiente generale, in cui egli fa muovere e agire i suoi eroi non è unicamente il frutto della sua immaginazione, che egli rispec- chia antiche tradizioni e che le condizioni poli- tiche, sociali, economiche e civili della Grecia erano quali appunto egli le presenta inconsciamente ai suoi lettori.

I4 Parte prima /

La penisola greca al tempo cantato da Omero {e dicendo Omero intendiamo i due poemi che vanno sotto il nome di lui, prescindendo affatto da tutte le questioni, le ricerche; le incertezze che sono comprese nella così detta questione omerica) è divisa politicamente in diversi Stati autonomi, retti tutti a forma di monarchia assoluta. Ognuno ha la propria città capitale, dalla quale prende il nome e che è sede dei suoi re. Il territorio dello Stato è detto ‘demo’ (d7u0s, demos), nome che significò poi anche il popolo che lo abitava, e più tardi anzi questo soltanto. Conteneva più città (110Aeig, poleis) costi- tuite ciascuna, a quanto sembra, da comuni, tra loro indipendenti. Le città erano per lo più aperte, non difese da mura (dtsixtotor, ateichistoi); ma ve ne erano pure di fortificate (una città fortificata era detta dotv, asty, 0 16ÀIg terybenoa, polis teichidessa ‘murata’ o eùteiXe0s, euteicheos, di buone mura ’). Nelle città, oltre ai re, abitavano di regola le fa- miglie più ragguardevoli e ricche, che potremo dire nobili, benchè una classe di nobili, nel senso odierno della parola, rigorosamente distinta dalle altre, per speciali disposizioni legislative, secondo ogni pro- babilità non esistesse ancora in quel tempo. Il resto della popolazione abitava nelle campagne /dyooi, ag76î), 0 dispersa in casolari o riunita in piccoli villaggi {xOu, fomaî), dedicata ai lavori cam- pestri e alla pastorizia.

I Greci tutti sono chiamati dal poeta Argivi ('Agyetoi, Argheioi), Danai (davaoi, Danadi) e più

e Grecia d'Omero 15

comunemente Athei (Agauoi, Achaivi). Il nome di illeni (CE4Anres, \Heéllenes), come designazione col- lettiva del popolo, gli è ancora ignoto come gli è ignota la divisione nelle tre stirpi, degli Ioni, degli oli e dei Dori, che' tanta parte hanno, dal secolo VIIE in poi, nello svolgimento della storia e della civiltà greca. Accenni tuttavia a diversità di stirpi

di dialetti troviamo pure in Omero, ed esse esi- ilevano certamente al tempo suo; ma la divisione © distinzione loro si fece più chiara e spiccata solo più tardi, in conseguenza dei contatti e attriti vi- cendevoli e degli indirizzi diversi, che, per le vi- cende storiche e per le influenze straniere, i Greci [urono costretti a prendere.

% 2. I RE. A capo di ogni Stato sta il re, detto fiaorAeds, basiléus o anche dvaf, anar. Omero canta appunto nei suoi poemi le imprese di Agamennone re di Micene, di Menelao re di Sparta, di Nestore re di Pilo, di Achille, figlio di Peleo, re dei Mir- midoni in Tessaglia, di Ulisse re d’Itaca, di Priamo re di Troia, e così di molti altri. Ma lo stesso titolo è pur dato in generale ai principi e ai capi o governatori di piccoli territori, subordinati a un re di più vasto dominio.

Il re è capo assoluto dello Stato, come il padre è capo assoluto della famiglia. L’autorità sua pro- viene da Zeus (Giove), chè la monarchia è di isti- tuzione divina; i re regnano e governano per grazia di Zeus, e da Zeus sono ritenuti ‘nati’ e ‘nutriti’ (detti perciò dioyevses, dioghenees, o diotoegpées

16 Parte prima /

faxAnes, diotredhees basilees). Il diritto loro passa, per naturale eredità, da padre in figlio, di prefe- renza al primogenito, quando cause speciali non facciano derogare da questa regola.

Il potere del re è assoluto in teoria, ma in pratica è temperato dal Consiglio dei seniori, delle persone cioè più autorevoli per età ed esperienza, che attor- niano il principe e formano, per così dire, il suo seguito. Le relazioni del re col suo popolo sono ispirate a bontà e benevolenza; i re sono riguar- dati come pastori che vigilano solleciti e premu- rosi sul benessere del gregge affidato alle loro cure, e dal poeta sono detti ‘pastori di popoli” (sr0‘- ueves haòv, poimenes labn). La società descritta da Omero è in fondo aristocratica, ma nel senso migliore della parola; col predominio vale a dire delle classi più ricche e moralmente migliori e più colte, ma animate da sentimenti benevoli verso le classi più umili.

La bellezza, la forza, la vigoria del corpo, la bontà dell’animo e la giustizia sono riguardate come qua- lità inerenti alla dignità regia e alla persona che n’è investita; chi non le possiede è indegno di reggere un popolo.

Il re riuniva in il potere politico, militare e giudiziario. Dignità sacerdotale e carattere religioso, nel senso rigoroso della parola egli non aveva; ma come il padre di famiglia celebrava i sacrifizi pri- vati e domestici di essa, così il re, come capo dello Stato, celebrava i sacrifizi e compiva le pubbliche

\ La Grecia d'Omero 17 __—_ A MMIedbe TT

funzioni religiote. Egli stesso, a nome di tutto il popolo e dell’esercito, sgozza sull’ara ardente le ittime sacre, e leva agli Dei protettori la sua pre- whiera. « Quando le navi achee, di lutto a ‘Troja \pportatrici, in Aulide raccolte » dovevano salpare per la gloriosa impresa di Troia, sono i prin- cipi greci stessi che stando « in cerchio ad una fonte » immolano « sui devoti altari Vittime elette \i sempiterni, all'ombra D'un platano al cui piè nascea di pure Linfe il zampillo » (2/7. vers., come sempre, del Monti, II 397 S88-). Quando Paride e Menelao stanno per venire alle mani e risolvere con un duello la lunga contesa (74 III 363 seg.) tra Achei e Troiani, è Agamennone stesso, che alla presenza dei due eserciti, schierati di fronte, giurando col venerando Priamo i patti stabiliti, sacrifica sull’ara di propria mano la vittima e ne raccoglie il sangue e abbrucia sulla fiamma il sa- cro farro.

In guerra il re comandava e guidava con poteri assoluti l’esercito. In tempo di pace decideva come giudice le questioni, pronunciava assoluzioni e con- danne, puniva le trasgressioni delle leggi e i de- litti. Leggi scritte pare non vi fossero, ma ‘norme tradizionali di giustizia” (Jgwortes, /hémistes) che, sancite dall’uso e considerate come sacre e di derivazione divina, erano rigorosamente osservate. I re son detti perciò dal poeta ‘© amministratori di giustizia’ (dvaordAo. PaoAnes, dikaspoloi basilees), e in questa loro funzione sono assistiti dal prudente

2 INAMA,

18 Parte prima f

/ consiglio dei seniori (Yeo0vrtes, ghéfontes, 0 anche dvdòoes diaordào, andres dikaspoloi).

Il re ha rendite speciali, che consistono in doni (dorivat, dotinai) che spontaneamente i sudditi gli presentano, e nei frutti di un’ terreno a lui as- segnato (téuevog, femenos) dallo Stato. Spetta inoltre a lui la parte maggiore e migliore delle prede e d’ogni bottino di guerra. Nei pubblici banchetti siede al primo posto e doppia è la porzione di cibo e di bevanda a lui imbandita. Ha al suo seguito un certo numero di commilitoni o scudieri (Fe0d- movteg, theripontes), che lo assistono in guerra o rendono più decorose le cerimonie inerenti alla sua carica,

Insegne particolari che lo distinguessero dagli al- tri, vuoi negli abiti, vuoi nell’ornamento del capo o della persona, pare ch'egli non ne avesse, salvo che forse le sue armi e le sue vesti erano più ric- camente ornate e più preziose. Come segno della sua dignità e del suo potere egli non portava che lo scettro (cx}T00v, skeptron), bastone di legno, variamente adorno di borchie e fregi di metallo, che passava di generazione in generazione e credevasi a lui concesso da Zeus. Perciò appunto i re sono detti ‘scettrati’ (oxnartovyoi, skeptouchoi). Ma uno scettro, probabilmente di forma speciale e più sem- plice, portavano anche gli araldi (Moves, kery- £es), in segno della loro inviolabilità e autorità. E con lo scettro in mano parlavano nelle assemblee del popolo o nelle riunioni dei seniori così i te

La Grecia d'Omero 19

come i principi e ogni altro che tenesse innanzi a queste un discorso. Il nome di scettro, che eti- mologicamente non altro significa se non strumento iu cui appoggiarsi, davasi anche a qualunque sem- plice bastone, compreso quello dei pastori.

% 3. IL PoroLo. La popolazione era divisa in due grandi classi, quella che potremo chiamare dei nobili, o meglio delle famiglie ricche e notevoli, e in moltitudine’ (31435, 2424455), o popolo (Ogu0s, demos) propriamente detto.

Le persone più rispettabili per nascita, per ric- chezze e per età, erano appellate i migliori (dot- otijes, aristees) o i‘seniori’ (yé0ovtes); esse sole avevano parte nel governo dello Stato e nell’ammini- strazione della città, quali duci e capi (7770085 uédovtes, heghétores edè médontes) delle genti a loro soggette; costituivano una specie di aristocrazia, formavano una specie di Consiglio o senato che vo- gliasi dire intorno al re; e consiglieri (f0vAngo0ot, dow- lephoroi) appunto erano denominati. Grande era la loro autorità, tanto che alle volte essi pure, al pari del re, potevano convocare in assemblea il popolo; ma se avessero attribuzioni loro speciali e quali queste fossero, non sappiamo.

Il popolo non aveva parte alcuna direttamente nel governo dello Stato. Esso veniva bensì, di quando in quando, convocato dai re o dai principi in assemblea, ma non per prendere qualche delibera- zione, sibbene per ascoltare semplicemente quanto ai capi piacesse di comunicargli, e avere notizia di

20 Parte prima f

—_ o Teti i > 1.339 ciò che questi avessero già prima deliberato. Esso approvava o disapprovava con applausi o con grida e rumori, ma questi quelli/aggiungevano o mutavano nulla alle deliberazioni già prese. Erano però sempre un utile avvertimento ai capi e un indizio per conoscere se avessero con il con- senso del popolo e per regolare opportunamente la propria condotta.

Il popolo era diviso in tribù (puiai, phyidi) e le tribù suddivise in ‘fratrie’ (poatoar, phratra1); ma queste divisioni non avevano carattere politico. Dietro quali criteri e con quali scopi realmente fossero costituite non sappiamo; ma è probabile che dipendessero da vincoli di consanguineità e paren- tela, e avessero intenti religiosi, come vedremo più tardi in Atene,

La popolazione era costituita da agricoltori, pic- coli proprietari, che lavoravano direttamente da sè, con l’aiuto di pochi servi, i propri poderi, è da professionisti o artigiani, che esercitavano qualche arte .o mestiere e da questo traevano il guadagno per vivere. Erano designati col nome di demiurgi (Onuosgyoi, demioerzdi ‘lavoratori per il popolo’), ed erano compresi in essi così quelli che esercita- vano le arti manuali, quali i fabbri, i carpentieri e simili, come quelli che esercitavano professioni più elevate, intellettuali, come i cantori, i poeti, gli araldi, i medici e altri.

Vera inoltre una classe di Operai giornalieri, detti ‘teti’ o ‘eriti’ (97785 o éodot, thetes, érithoi),

\ \

\La Grecia d' Omero 21 MR A Pe E

che campavano miseramente la vita, ponendosi al servizio di altri pei lavori più faticosi e più umili, sia nelle città, sia nei campi. In questa classe erano pure compresi, ed esclusi perciò dal popolo propriamente detto, i forestieri (éelvot, xeinoi); ma tra questi ultimi una categoria più umile ancora, e quasi in condizione di schiavi, formavano i meta- nasti’ (4eravdortat, metanastai) o inquilini non pro- (etti dalle leggi dai tradizionali diritti di ospi- talità, ma abbandonati alla ventura.

In generale la popolazione greca nei tempi ome- rici è dedita assai più alla pastorizia e all’agri- coltura, tenuta in onore ed esercitata direttamente anche da proprietari ricchi, che non alle industrie è ai commerci. Questi sono ancora in gran parte in mano agli stranieri, Fenici o altri che fossero. l'uttavia qualche arte o mestiere speciale era pure esercitato da Greci, che in alcuni avevano già fatto notevoli progressi. Ma ai bisogni normali la famiglia provvedeva ‘in gran parte da sè, in quanto che il marito stesso fabbricava non di rado gli ordigni di casa e gli strumenti del lavoro, e la moglie pre- parava e cuciva le vesti per tutti.

$ 4. GUERRA E ARMI. —— L’esercito era coman- Jato dal re e costituito da tutto il popolo capace li portare le armi. La parola medesima Zaés, 4e0g (laòs, lebs) significava popolo ed esercito. Le armi «rano assai varie e imolto perfezionate e lavo- vorate artisticamente, così per l'offesa come per la difesa. Erano per lo più di bronzo (yu4x0s, chalkds),

22 Parte prima

più di rado di ferro (ciòn00g, sideros), abbellite, quelle dei principi e dei capi, con ornamenti vari, fregi e intarsi, d’oro, d’argento; di stagno e d’una specie di acciaio bruno, detto riavos, kvanos.

Il guerriero portava in capo un grande elmo di bronzo (x60vs, £0rys, ANS, pelex, tovpalera, try- Phaleia) di varie forme e di vario nome, che pro- teggeva, oltre alla testa, la fronte, le tempie e il naso; ovvero portava un elmetto più piccolo e leg- gero in origine di pelle di cane, detto xs, kyree, o in seguito generalmente d’un cuoio qualunque, con borchie e placche di metallo. Non di rado l’elmo era munito di alette frontali o laterali (gdA0, Phaloîi) che talvolta scendevano a proteggere anche le guance e di dietro la nuca. La parte superiore rotonda aveva bugne o sporgenze (gaAZaoa, phd- ‘ara) per farlo più resistente ai colpi nemici. Sor- montato da un cimiero (A6pos, lophos) formato di code o crini di cavallo, che rendessero più bello terribile l'aspetto dell’eroe, era fermato sotto il mento con corregge di pelle (indg, Aimzds, pl. iudv- 186, himantes, Oyevs, ochéus ‘fermaglio ’). Il petto e la schiena erano protetti dalla corazza (I@0nÈ, tho- rex) grande così da coprire anche il ventre, sempre aderente al corpo, formata per lo più da due piastre di metallo Imuaia, eAvala), una sul petto l’altra sulla schiena, legate tra lora sotto le ascelle e sostenute sulle spalle da solide corregge. La corazza era alle volte di tela di lino (Arotdoni, linothorex), rinforzata da placche e liste di me-

La Grecia d’ Omero 23

tallo. Al disotto della corazza il guerriero aveva anche la tunica, detta chitone (ytr@v, c47/0r), che era una specie di camicia di tela di lino, chiusa sui fianchi da una cintura {($woro, zoster) di cuoio con piastre di metallo, e da una larga fascia (ui ton, mitre) imbottita e protetta anch’essa all’ e- sterno da placche metalliche, a difesa del ventre, sul quale, come sulle cosce, pendevano dalla co- razza fino ai ginocchi larghe liste di cuoio a guisa di gonnellino svolazzante. Al di sotto del ginoc- chio le gambe erano difese dagli schinieri (x»muis, knemis, pl. mmuideg, knemides) o gambali di bronzo (perciò gli Achei son detti dal poeta eèr)ud£g, euknémides dai bei schinieri’ o yaArouv)udes, calkoknémides dagli schinieri di bronzo’) fermati con correggiuoli e fibbie (émogpoa, episphyria) al polpaccio della gamba. Il guerriero portava inoltre come arma di difesa lo scudo (dois, asfîs, 0dKOS, sakos) grande così da coprire tutta la persona, ovale, convesso, pesante, formato da più pelli di bue, sovrapposte le une alle altre e fissate con bor- chie di metallo, e con un cerchio (dvtv$, antyx) pa- rimenti di metallo in giro. Una protuberanza o um- bilico” (duga70s, omphalés), guernita a volte d’un pomo o d’una punta di metallo nel centro dello scudo, lo rendeva anche atto eventualmente all’of- fesa. Era imbracciato per mezzo di una maniglia interna, detta morraî, forpar. Quando non si ado- perava nel combattimento, veniva portato dal guer- riero sulla schiena, sospeso e sostenuto da un balteo

24 Parte prima

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(teRlauav, felambn); ma nelle marce lo scudo era affidato a valletti che seguivano il guerriero. Invece di questo scudo, ampio e pesante, se ne usava un altro più piccolo, rotondo, leggero e assai più maneggevole. Come armi d’offesa il guerriero portava: a) la

lancia (&yg0s, enchos) con l’asta (ddov, dory) di quercia o di frassino, lunga circa cinque metri {perciò il poeta le spesso l'epiteto di doAiydomios, dolichéskios ‘che getta lunga ombra’). Aveva la ‘punta’ (aly, aichmé) di metallo, ed era acumi- nata anche all’altra estremità, perchè, quando il guerriero riposava, potésse essere conficcata nel ter- reno e stare ritta. La lancia era scagliata a distanza «contro il nemico, a guisa di giavellotto (anbvitov, akontion), e perciò ogni guerriero ne aveva di solito due; 6) la spada {Sipos, xibhkos, paoyavor, phasga- non, doo, or) che, a doppio taglio e varia di forma,

quando era chiusa nella vagina (xovAedv o xoAedr,

kule6n o koleòn), pendeva sul fianco sinistro, sospesa

ad un balteo posto a tracolla sulla spalla destra.

L’elsa (xe, kofe) era non di rado ornata con

borchie e fregi di argento. I guerrieri armati più

leggermente portavano un grande arco (rdfov, fo- x0n) di legno o di corno, con le frecce (dtotoi, otstéi) chiuse nella faretra (paoéton, pharetre), l'una e l’altro appesi sulla schiena. Più di rado era usata la fionda (cpevòév7, sphendone) per lanciare piccole pietre o pezzi di metallo. I guerrieri ‘principali di Omero vanno in battaglia

La Grecia d’Omero 25 __ lA Re

sul carro di guerra (gua, harma, dyga, bchea, di- p00g, diphros) a due ruote, tirato da due cavalli; alle volte combattono stando ritti su esso, alle volte scendono dal carro per muovere a piedi all'assalto del nemico. Aveva la forma presso a poco della bica romana. A cavallo non combattono mai. È singolare quest’uso, tutto orientale, di combattere dal carro, proprio esclusivamente dei tempi ome- rici ed estraneo affatto ai tempi storici della Grecia, tanto più singolare in quanto che la costituzione topografica della penisola ne rendeva, se non del tutto impossibile, certo assai difficile l’uso. Le corse dei cocchi nelle gare ginniche sono forse un ricordo di usi più antichi. Nell’attacco il guerriero scagliava prima la lancia contro l'avversario, e se questa non colpiva a morte, il combattimento continuava a corpo a corpo con la spada; non di rado si get- tavano anche delle grosse pietre. Il vincitore spo- vliava il vinto dell’armi, e queste erano suo trofeo (£vaga, énara ‘spoglie ’) e la più ambita delle sue prede.

L’accampamento, con tende se doveva servire per qualche tempo, era munito di fossati e di torri, aveva il proprio mercato (dyogd, agord), per- chè i guerrieri potessero provvedersi di vitto, e al- tari per i soliti sacrifizi.

% 5. Tempî E cuLto. Il sentimento religioso è vivo e sincero nei Greci dell’età omerica, ma nello stesso tempo il poeta discorre degli Dei con ingolare libertà e indipendenza di pensiero, e qua

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e con aria canzonatoria, che parrebbe più pro- pria di tempi più evoluti e scettici. La supersti- zione è assai diffusa in tutte le classi della popo- lazione. I riti e il culto sono in complesso quelli stessi delle epoche posteriori e che noi vedremo meglio nelle Anzichità sacre.

Nell’età omerica il tempio (reds, vyos, neds, da vaio, naio ‘abitare ’) era considerato come l’abita- zione degli Dei, e non ve n’erano che nelle città o nei luoghi più specialmente dedicati al culto di qualche divinità particolare. Ma sacrifizi e funzioni religiose se ne facevano dappertutto, su un altare costruito al momento, o su are stabili, che sorgevano ovunque, Intorno a queste v’era ordinariamente un certo tratto di terreno considerato come ré£r0g, lemenos, cioè recinto sacro; gli altari erano a preferenza collocati in boschi o entro grotte naturali o in luoghi elevati.

Una classe o casta sacerdotale non esisteva allora, esistette mai nell’antica Grecia. V’erano bensì sacerdoti (iegeîs, Hiereis, dontjoss, areteres pre- ganti °) addetti al servizio dei singoli tempî; ma i sacrifizi pubblici, le preghiere e le funzioni reli- giose fuori dei tempî, per giuramenti solenni o altro e a nome del popolo tutto, erano celebrate dai re o dai principi; i sacrifizi privati dal padre di famiglia, senza l’intervento di alcun sacerdote.

I Greci credettero in ogni tempo che egli Dei manifestassero, con segni particolari, agli uomini, la propria volontà, la propria benevolenza o il pro- prio malcontento e sdegno. Molti di tali segni,

La Grecia d’Omero 27

quali il tuono, il fulmine e altri fenomeni celesti potevano essere interpretati facilmente da ognuno. Ma la superstizione poi creò 0 immaginò un nu- mero infinito di altri modi o segni della manife- stazione dei voleri divini: i sogni, gl’incontri di persone, le voci o i suoni uditi a caso, la comparsa improvvisa o il volo o il canto di certi uccelli, ecc. In tutto insomma poteva scorgersi un indizio della volontà degli Dei.

La conoscenza e l’interpretazione di così vari segni creò un’arte speciale, la mantica (u@vt4o1), mantiké) che doveva essere appresa con lo studio, e una classe particolare d’interpreti o vati (pavtiEs, sndnties) con carattere quasi sacerdotale. Essi ave- vano nomi diversi secondo che fossero piuttosto interpreti dei sogni (0ver00rrd4ot, oneiropoloi), poi- chè i sogni erano mandati da Zeus, 0 del volo e del canto degli uccelli (0i@rostAoi, ciomopoloî; vlmrés, cionòs uccello di rapina *) o possedes- sero l’arte di predire il futuro dal colore delle viscere degli animali sacrificati sull’ara. Benchè di quest'ultima specie di mantica Omero non faccia alcun cenno, non è improbabile ch’essa esistesse già al tempo suo.

Anche gli oracoli (y0norijoa, chrestéria) erano conosciuti al tempo di Omero. Più celebre di tutti allora quello antichissimo, pelasgico (7. XVI 335 ‘gg.), del Zeus di Dodona nell’Epiro appiè del monte l'omaro, e già noto quello di Pitone 0 Apollo in Delfo che in seguito diventò il più famoso di tutti.

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& 6. La ramicLIA. La famiglia al tempo d’Omero era saldamente costituita sul principio della monogamia. Il matrimonio assumeva un ca- rattere sacro, in quanto che veniva celebrato con sacrifizio solenne e posto sotto la vigilanza degli Dei. La sposa (vòugn, nymphe) veniva condotta alla casa del marito con lieto seguito di parenti e d’amici, fra suoni di flauti e di cetre (@6oyyyeg, phorminghes) e apposite canzoni nuziali ($#ugvatos, Ayménaios), usi che continuarono tra i Greci dei secoli successivi. Chi aspirava alla mano di una fanciulla la otteneva con ricche donazioni fatte al padre di lei (Sedva, éedna: ricordo d’un uso più antico, quand’essa veniva comperata come cosa) e con regali ($o0a, dora), fatti alla sposa. Questa portava in dote vesti e ornamenti.

La famiglia era fondata sulla stima reciproca, sulla concordia e l’affetto del marito e della mo- glie. Gli esempi di Ettore e Andromaca, di Ulisse e Penelope, di Alcinoo e Arete e altri parecchi mostrano quale alto e nobile concetto morale aves- sero i Greci delle reciproche relazioni famigliari. La poligamia di Priamo accenna ad un uso più orientale che greco.

L’adulterio era severamente riprovato e punito nella donna, tollerato nel marito, benchè conside- rato sempre come cosa irregolare. Tuttavia accanto alla moglie legittima (xovowdi7 dA0y0s, kouridie dlo- chos, 0 aldoin ragdkortiy, aîdoie paribkoitis) si trova non di rado una concubina (sra4Zaxis, pallatis), ma

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questa per lo più veniva scelta tra le schiave, sia comperate, sia conquistate in guerra. I figli illegit- timi erano allevati in casa insieme coi figli legit- timi.

In complesso la costituzione della famiglia è fon- data su un concetto di sana moralità, sul rispetto dei figli per i genitori, sulla venerazione di questi, soprattutto se vecchi, e sulla reciproca affezione dei fratelli.

La madre di famiglia teneva in casa una posi- zione decorosa è rispettata. Dirigeva e invigilava l'economia domestica; benchè aiutata da donne di servizio e schiavi negli uffici più faticosi, secondo la posizione più o meno agiata della famiglia, ac- cudiva direttamente alle faccende di casa, filava e tesseva tele al telaio, curava l'allevamento e la prima educazione dei figliuoli.

% 7.1 cisi. Il cibo dei tempi omerici era quello presso a poco di tutti i tempi, vegetale e animale (citos vai xoéa, sitos kai krea), con prevalenza del primo. L'agricoltura era discretamente progredita, e la cultura dei grani, orzo e frumento, dei legumi (Adyava, Zichana) e anche delle frutta (ua, w1e/a) era dovunque esercitata. L’ allevamento del be- stiame e la pastorizia offriva carni abbondanti di pecore, di capre, di maiali e di buoi. L'uccisione di questi aveva carattere sacro, in quanto era fatta in forma di sacrifizio, e una parte della vittima bru- ciata in olocausto agli Dei.

Anche la caccia procurava un nutrimento sostan-

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zioso, e l’apicoltura forniva nel miele un cibo e un condimento di cui si faceva un uso assai largo.

La coltivazione della vite era diffusa, e il vino (06vos, vinos, u#9v, methy ‘bevanda’ o ‘vin dolce’) non mancava sulla mensa delle classi più agiate. Parimenti come bevanda era molto adoperato il latte di pecofa e di capra.

Di regola si facevano tre pasti al giorno: la colezione (dototor, driston) al mattino, il pasto prin- cipale o pranzo (detrvor, deibruon) verso il mezzo- giorno, e la cena (ddorror, dorpon) ‘di sera, dopo il tramonto del sole.

% 8. IL vesTIARIO. Le stoffe tessute e le tele erano ancora in gran parte, nei tempi omerici, im- portate dall’oriente per mezzo dei negozianti fe- nici; ma anche le donne greche conoscevano ed esercitavano l’arte del filare e del tessere.

Il vestito principale dell'uomo era il ‘chitone’ (xtt®v, chiton), con o senza maniche e con un orlo in fondo, Talvolta esso copriva la persona fino ai piedi, come presso gli Ioni, detti perciò #&xeyitoveg, helkechitones ‘strascicanti la tunica’. Mai guerrieri e quelli che accudivano a lavori, che richiedessero maggiore libertà nei movimenti, usavano una tu- nica più corta e succinta.

Il ‘chitone’ portavasi o sciolto affatto, o stretto nei fianchi da una cintura ($@orio, zostér) o da una fascia più larga (uéron, mitre), ed era di solito bianco, di lana, o anche di lino.

AI disopra del chitone gli uomini indossavano

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un mantello di grossa lana detto claina’ (xA@im), claine), non di rado purpureo, che serviva a pro- teggere dal vento e dal freddo (@vesoonem)s, ane- moskepés ‘che ripara dal vento’, o dAes$areuos, alexanemos ‘che tien lontano il vento’) e poteva esser semplice o di grandezza doppia, nel qual caso si diceva dirr4at, diplax, o durhi) ghAaim, diplè chlaine. In taluni casi, sia per ripararsi me- glio dal freddo, sia per ornamento, adoperavano pellicce e talvolta delle pelli di belve. Mentre la claina era comune a tutti, speciale ai ricchi perchè più costoso e di stoffa più fine era il faros’ (94006, pharos), ampio mantello che copriva tutta la per- sona.

I più andavano d’ordinario a capo scoperto, pro- tetti contro le molestie del sole, del freddo e della pioggia dalla folta capigliatura (gaitn, chaîte; uomi, kome) che lasciavano crescere liberamente, onde gli Achei son detti dal poeta xdoy xouòortes, kare kombontes capochiomati’. Se portassero barba o la radessero, non sappiamo. I popolani andavano scalzi; i signori portavano sandali (srédcAa, fédila) di cuoio, legati alla gamba con cinghie.

Le donne, oltre il chitone, usavano il faros, il ‘peplo’ (é405, deflos), anch'esso un mantello, fer- mato con fibbie (sreo0rat, peronai; abosrar, porpat) sulla spalla, lasciando ignudo il braccio, il x@Avuua, kalymma, la na4vrrton, kalyptre e il xoijdeuvor, krédemnon, veli o ornamenti del capo, e l’096rn, othone, una specie di scialle o fazzoletto di lino, o

32 Parte prima ———*_===—— 5. 8 anche di sottoveste. L’abito era stretto ai fianchi da una cintura (£©v, zone), più o meno adorna, che permettendo di dare un’artistica disposizione alle pieghe della veste ricadente sul seno, serviva a far risaltare l'eleganza della persona. Sotto que- sto riguardo le donne omeriche son dette eÙsmwIOI, euzonoi, nardifovor, kallizonoi ‘ben cinte’, dalla bella cintura’, Pasigovor, bathyzonoi, BadinoAsri, bathykolpoi “dal profondo seno ’, cioè con la veste che forma una specie di ampio seno sopra la cintura.

A trattenere i capelli e ad ornare la testa le si- gnore adoperavano bende e diademi (decuarta, désmata, otepavn, stephane, duri, ampya): alle orecchie portavano pendenti d’oro o d’altro me- tallo (£&ouata, hérmata) di varie forme; al collo collane (6040, kormoî, loguua, isthmia) parimenti d’oro o d’altro metallo prezioso; alle braccia brac- cialetti (É&Qewes, Aélikes); ai piedi infine sandali di cuoio.

II.

ANTICHITA PUBBLICHE

3 INAMA.

L’ATTICA E ATENE,

IL Governo.

% 1. I PRIMISSIMI TEMPI. L’Attica (Artoa}, Al fiké) è paese nel suo complesso montuoso. Poche e brevi pianure si stendono ad oriente di Atene, presso Eleusi e nei dintorni di Maratona; ma queste pure, benchè irrigate dall’Ilisso, dal Cefisso e da qualché altro piccolo fiume, sono aride anzi che no, ij grani e le biade vi crescono molto abbondanti. Ultimamente invece allignano sulle colline e sulle miti pendici dei monti l’olivo, il fico e anche la Vite, cosicchè in ogni tempo assai importante fu nell’Attica la produzione e l'esportazione dell'olio, lei fichi e del vino.

Fin dai primissimi tempi l’Attica fu abitata dalla tirpe degli Ioni, i quali, non serbando più me- moria del tempo in cui verano entrati, si conside- tavano come autoctoni (aùrdz9oves, autochihones) vale a dire come nati su quel suolo. Se genti stra- nere, e quali, l'avessero abitata prima di loro essi seppero, noi sappiamo. Se mai ve ne fu- tono, esse vennero scacciate dagli Ioni o si fusero

36 Parte seconda

con questi in modo che non rimase traccia alcuna di loro.

Da principio l’Attica, come tutte le altre regioni della Grecia, era governata da re, sul tipo dei re dei tempi omerici, i quali riunivano in il potere politico, giudiziario e religioso. L’ultimo di essi fu il leggendario Codro vissuto, si credeva, verso la metà del secolo X a. C.

Ai re succedette il governo oligarchico degli ar- conti (doyovtes, drchontes). Si ebbe dapprima un solo arconte, che durava in carica a vita; più tardi, verso la metà del secolo VIII a. C., l’arcontato fu reso decennale; nel 682 a. C., secondo la tradi- zione, venne costituito il governo di nove arconti, i quali erano nominati d’anno in anno, Le attri- buzioni politico-amministrative, che prima erano concentrate nel re, e poi nell’arconte che gli fu so- stituito, vennero allora divise fra i nove arconti, i quali da principio erano scelti costantemente tra le famiglie aristocratiche del paese. Ma a mano a mano anche tutte le altre classi sociali presero parte diretta al governo, e questo si fece sempre più de- mocratico,

% 2. PoPoLAZIONE. La popolazione era costi- tuita da cittadini liberi (sro%irar, politai), da fore- stieri, detti ‘meteci’ (ustomor, métoikoi), e da schiavi (dovàor, douloî).

a) Gli schiavi da principio nell’Attica erano relativamente pochi. Qui non era avvenuto che una popolazione anteriore fosse stata ridotta in schia-

Antichità pubbliche 39,

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vitù da nuovi conquistatori soprarrivati, come p. es. nella Laconia e in Creta, dove gl’invasori Dori ridussero schiave le genti che prima di loro abita- vano quelle regioni. Nell’ Attica schiavi indigeni propriamente non vi erano; gli schiavi erano d’o- ricine straniera e importati dal di fuori, conquistati in guerra o comperati, poichè il commercio degli schiavi era antichissimo e comune a tutte le genti. |l numero degli schiavi, esiguo da principio, venne in seguito sempre più aumentando, sia per nuove nascite, di generazione in generazione, tra quelli che già vi erano, sia per nuove compere. Esso crebbe assai principalmente per lo sviluppo sempre maggiore che presero le industrie, la navigazione, i commerci, per i quali l’opera loro era più ne- cessaria, e per il continuo aumentare della ricchezza e prosperità del paese. Può calcolarsi, approssima- livamente, che nel V e IV secolo gli schiavi fos- sero nell’Attica da 100 a 150 mila e che in Atene formassero quasi due terzi dell’intera popolazione. kssi erano adoperati per i lavori manuali più fati- così nelle officine, nei campi, nelle miniere, come rematori e facchini sulle navi, nei più umili servigi in casa. Anche lo Stato aveva i suoi schiavi (dudotor dodo, demosioi douloi), che impiegava per la net- tezza della città e per il mantenimento dell’ordine, come guardie e vigili urbani (ro$éra, fowofai "ar- cieri?), come servi nei pubblici uffici, o anche come scrivani.

Lo schiavo, considerato come cosa, formava parte

38 Parte seconda

della sostanza del padrone, passava con quest agli eredi di lui, e poteva essere venduto ad altri o anche ucciso,

Ma in Atene, ove in generale gli schiavi eran trattati più umanamente che nelle altre città greche essi non potevano essere messi a morte che dietr regolare processo, e godevano del diritto d’asilo, ossia di rifugio, nel tempio di Teseo.

Per atti di valore o per servigi notevoli prestati al padrone ovvero allo Stato lo schiavo non di rado era reso libero (dreAev3e00gs, apelettheros) ed entrava allora nella categoria dei meteci; ma. ben difficilmente poteva ottenere la piena cittadi- nanza. Gli schiavi potevano formarsi una famiglia loro propria, e col lavoro, con l’economia, col dipor- tarsi onestamente riuscivano alle volte a raggranel- lare qualche peculio e a costituirsi una condizione di vita, non che tollerabile, agiata.

5) I meteci erano forestieri, che da altre parti della Grecia erano venuti a dimorare stabilmente nell’Attica o in Atene, per esercitarvi l'industria, il commercio, o qualche altra professione. Si è cal- colato che nel V secolo il numero loro salisse a ben 45 mila.

Non godevano i diritti politici, e nemmeno interi i diritti civili, potevano possedere beni fondiari. Innanzi allo Stato e nei tribunali essi erano rappre- sentati da un patrono, detto prostate (r0ootamI]S, prostates), scelto da loro tra i cittadini e che do- veva far garanzia per loro. Pagavano una tassa spe-

Antichità pubbliche 39

ciale di permanenza o di dimora, di 12 dramme per persona, detta ‘metecio’ (uetoizior, metoikion), oltre alle tasse, come noi diremmo, di esercizio, pel commercio o per l’industria a cuì si dedica- vano, ed oltre a parecchie altre prestazioni even- tuali verso la città in occasione di feste, di guerre o d'altro, a cui erano tenuti gli altri cittadini. I meteci dovevano anche prestare servizio nell’eser- cito, quali opliti, ove ne avessero i mezzi.

Per benemerenze verso la città o per utili ser- vigi resi allo Stato i meteci potevano migliorare la loro pozizione civile: essere esonerati dall'obbligo di avere un patrono che li rappresentasse e di pagare la tassa di dimora, ed entravano così nel godimento dei diritti civili. In tal caso erano detti isoteli’ (toore4eîs, isoleleîs ‘soggetti agli stessi carichi’); ma non acquistavano mai i diritti politici, riservati ai soli cittadini.

c) Cittadini erano gli indigeni, nati in legit- timo matrimonio da padre e da madre che godes- sero la piena cittadinanza, ovvero che fossero stati dichiarati cittadini per decreto del popolo. Nei se- coli V e IV i cittadini liberi in Atene probabilmente non superavano i 30 mila, erano cioè una parte rela- tivamente piccola dell’intera popolazione. Ma se- condo le vicende storiche, ora fortunate ora tristi e miserande della città, il numero degli abitanti, così dei cittadini, come dei meteci e degli schiavi, andò soggetto a molte oscillazioni, ora aumentando ora diminuendo notevolmente, come suole avvenire sempre e dovunque,

Parie seconda

% 3. CLASSIFICAZIONE DEI CITTADINI. Secondo l'affinità di sangue e i vincoli di fratellanza, secondo la maggiore o minore ricchezza o agiatezza, secondo la parte che poteva avere nel governo e nell’a ministrazione dello Stato, la cittadinanza di Atene era variamente distribuita in gruppi o categorie 0 classi che vogliano dirsi.

a) Secondo i legami di parentela i cittadini erano divisi in “genti? (y&vn, e4ene, pl. di PEVOS ghenos) e fratrie’ (goargiat, phratriai), divisione antichissima e comune a tutte le stirpi greche.

Costituivano una gente tutte le famiglie che si attribuivano un progenitore unico, dal quale pren devano nome. Comune a tutta la gente era il culto! d’una divinità speciale, ma tutte insieme nell’At- tica adoravano Zeus domestico (&ouetog, herkeios) e Apollo patrio (wato®os, datroos). Le persone appartenenti a una medesima gente erano chia- mate gentili (verra, ghennetai) o allattate con lo stesso latte (juoydAurtes, homogdlaktes), mentre cognati (cvyyevets, syagheneîs) erano detti i mem- bri della medesima famiglia.

Anche le fratrie erano ciascuna sotto la prote- zione d’una divinità particolare. Le genti, di cui ogni fratria si componeva, nei tempi storici non erano imparentate tra loro, ma avevano però l’ob- bligo di vendicare o punire l’uccisione di qualcuno dei membri della fratria, il che dinota che in ori- gine v’era pur stata affinità di sangue fra tutte codeste genti. A tale affinità accennano anche pa-

Antichità pubbliche 41

tecchie altre attribuzioni proprie delle fratrie. Spet- lnva ad esse infatti il riconoscere e il registrare rome legittimi i matrimoni dei componenti la fra- tria, il dichiarare legittimi i figli nati da questi, o legittima l'adozione di altri; il dichiarare maggio- renni i figliuoli che avessero raggiunta l’età pre- \icritta, e compiere altri atti somiglianti, relativi illo stato civile dei cittadini.

5) Secondo la nascita e la ricchezza i cittadini cerano distinti in nobili o ‘eupatridi’ (eèrargidu, eupatridai), detti pure edyevets, eugheneîs ‘bennati’) e in popolo (dos, demos) o moltitudine (17À730g, plethos).

Nobili erano le famiglie le quali, ricche di censo e di possedimenti fondiari, facevano risalire, a torto o a ragione, l’origine loro a qualche antico eroe leggendario del paese, dal nome del quale designavano di regola il loro casato, e potevano tracciare, vera o presunta, tutta intera la serie dei loro antenati.

Tutto il resto dei cittadini era demo’, costituito da piccoli proprietari di terre (yeoyudoot, gheomoroi) e da tutti coloro che esercitavano qualche arte o mestiere manuale o anche qualche professione più elevata, chiamati ‘demiurgi’ (Oyuovyoi, demiour- £0t). Il popolo era quindi formato principalmente da agricoltori e da artigiani.

c) Secondo la varia partecipazione al governo e all’amministrazione dello Stato i cittadini erano distribuiti in tribù (gvAai, 24y/47).

0 TRI

42 Parte seconda

Da principio nell’Attica, come in generale nelle altre regioni della Grecia, la popolazione abitava dispersa in molti e piccoli villaggi (x@uac, komai), indipendenti tra loro e governati ciascuno con norme e leggi proprie. Erano detti anch’essi demi’, ma ognuno aveva un nome a sè, derivato il più delle volte dal nome di qualche divinità o di qualche eroe, che v’avesse culto speciale, o dalla sua posi- zione topografica, o da caratteri suoi particolari. Col volgere del tempo parecchi di questi si riu- nirono per comune difesa, in una specie di fede- razione, costituendo un solo Stato politico, una città (10%, polis).

In seguito qualcuno di tali villaggi, sia per incre- mento spontaneo della popolazione, sia per la più forte posizione topografica, sia per altre cause, diffi- cili per noi da determinare, prese la supremazia sugli altri circonvicini, attirò a e in con- centrò la direzione politica e religiosa di tutta in- tera la regione, diventò, come noi diremmo, la città capitale dello Stato, fortificata con mura e opere di difesa. Questo centro fu per l’ Attica Atene, denominata dal nome della Dea Atena (Minerva), che vi era particolarmente venerata. Se- condo la tradizione leggendaria, la città di Atene sarebbe stata fondata da Teseo, il quale avrebbe costretto molti demi, che prima erano divisi, a riu- nirsi insieme intorno all’Acropoli, avvenimento che è conosciuto col nome di ouvononds (synoitismos). Ben più probabile è però che il nuovo centro di po-

Antichità pubbliche 43

polazione non sia sorto così tutto d’un tratto, arti- ficialmente, bensì in modo lento e spontaneo, per vicende storiche a noi ignote, le quali indussero molte famiglie, tra le più nobili e ricche soprattutto, che prima abitavano in campagna, a trasferire colà, in luogo di più facile difesa, la loro stabile dimora.

I demi dell’Attica erano in origine aggruppati in quattro tribù, denominate dei Geleonti (l'eZéovtes, (heltontes), degli “Opleti’ (“OnAntes, Mopletes), degli Aigicori’ (Aòmoosts, Aighikoreîs) e degli Argadi’ o ‘Ergadi, (Agvdadeg o Eoyddes, Ar- gadeis, Ergadeis).

Il significato, etimologicamente sicuro, di tre di questi nomi (“0Antes guerrieri , da 67407, koplon, ‘arma’; dèopets pastori’ da ai&, alyòs, cix, aigds ‘capra’; e ‘Aovadets o Eoyades lavoratori *, con- tadini’ da #oyov, ergon ‘lavoro ’) e quello proba- bile o possibile di J'eXgovres ‘illustri’, ‘signori’ (da ve4hav, ghelin ‘splendere ’), nonchè il predominio delle due tribù dei Geleonti e degli Opleti, costi- tuite da nobili e da ricchi, pare accennino ad un’antichissima divisione per caste o per occupa- zioni. Ma di questa nessun'altra traccia sopravvisse nella storia dell’Attîca, sulla cui costituzione poli- tica e amministrativa noi non cominciamo ad avere notizie abbastanza sicure che nel tempo di Solone (tra il 639 e il 559).

$ 4. CosTITUZIONE DI SoLone. Solone non mutò il numero delle tribù. Distribuì anch’egli i

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cittadini in quattro classi; ma non secondo il cri terio topografico dell’abitazione loro, o secondo I diversità delle ioro occupazioni, sibbene secondo 1 rendita fondiaria di ciascheduno.

In tal modo egli costituì quattro tribù denomi- nate dei:

1a Pentacosiomedimni ? (rrevtarooto ue di tvot, pentakosiomedimnoi), formata da tutti i cittadini che possedessero una rendita annua non inferiore a 500 misure, sia di grano, sia d’altri frutti del proprio terreno. Una misura di grano era detta ‘medimno’ (u&diuvos, médimnos) ed equivaleva a ltrszti.

2a Cavalieri o ‘Ippei’ (isseis, Aippeis), costi- tuita da chi godesse d’una rendita non inferiore a 300 medimni, e potesse perciò mantenere un ca- vallo irmr0g, Rippos (donde il loro nome) e prestare servizio in guerra con quelli della prima classe, o a cavallo o fra gli opliti.

3% ‘“Zeugiti’ (Sevyirar, zeughitai), composta di quelli che avessero una rendita non inferiore a 200 medimni, possedessero in generale, un ‘paio’ di buoi ($eèy0s, zexgos; donde il loro nome) e colti- vassero direttamente i propri campi. In guerra co- storo prestavano servizio come opliti.

4a “Teti? (9tes, /hefes), risultante da tutti gli altri cittadini, che avessero una rendita inferiore o non ne avessero punto, e guadagnassero il vitto col lavoro giornaliero. Comprendeva dunque i più pic- coli proprietari di terre, artigiani, professionisti,

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modesti industriali e commercianti. In guerra questi rervivano come truppa leggera, arcieri, frombolieri, marinai.

In tal modo la costituzione di Solone toglieva la prevalenza nel governo all’aristocrazia del sangue è la dava all'aristocrazia del denaro. Ma poichè effettivamente le vecchie famiglie nobili erano pur hempre, in generale, anche le più ricche, esse entra- vnno quasi tutte nella prima tribù o classe, cosicchè conservavano, presso a poco come prima\un grande predominio nel governo e nell’ amministrazione. Nondimeno l'ammissione del proletariato all’assem- blea popolare con diritto di voto e alla giuria se- gnava un avviamento verso un regime democratico.

% 5. RIFORME DI CLISTENE. Un cambiamento invece, con indirizzo schiettamente democratico e con l’eguaglianza di tutti i cittadini, apportarono alla costituzione di Atene le riforme di Clistene, introdotte, dopo la cacciata dei figliuoli di Pisistrato, nel 509 a. C.

Alle quattro tribù di Solone egli sostituì dieci tribù, tutte tra loro uguali e l’una dall’altra indi- pendenti, costituita ciascuna da un numero uguale di demi. Giacchè Clistene divise la città in più demi 0, come noi diremmo, in circoscrizioni po- litiche elettorali, in modo che l’Attica intera, fra demi, che chiameremo rurali e demi urbani, ne contasse complessivamente cento. Egli aggruppò così dieci demi in ogni tribù, non già unendo insieme quelli tra loro vicini, sibbene scegliendoli

Parte seconda

qua e là, in punti diversi dell’Attica e della città. In tal modo le tribù perdettero ogni carattere lo- cale o topografico, vennero formate da class determinate di persone, ma ciascuna conteneva in- distintamente poveri e ricchi, nobili e non nobili, gente della campagna e abitanti della città.

4 6. ASSEMBLEA DEL POPOLO E CONSIGLIO. Il governo teoricamente in Atene, dopo le ri- forme di Solone e più ancora dopo quelle di Clistene, era in mano del popolo. Ma non dob- biamo dimenticare che questo popolo era costituito! dai soli cittadini liberi, esclusi gli schiavi, i meteci e gl’isoteli, e non rappresentava quindi relativa-. mente, se non soltanto una piccola minoranza in confronto di tutta la popolazione del paese, Al popolo Spettava decidere in tutti gli affari che riguardas- sero lo Stato, nelle questioni relative alla difesa del paese, alla pace, alla guerra, alle relazioni con gli Stati esteri, come a tutto ciò che avesse attinenza col culto e con la religione pubblica. Il popolo faceva le leggi e ne curava l'esecuzione; invigilava Sui magistrati e sugl’impiegati tutti dello Stato, semplici esecutori dei suoi decreti, e prendeva le sue risoluzioni e manifestava la sua volontà riu- nendosi in due assemblee, una generale di tutto il popolo, detta ‘ecclesia (&vAnoia, eRklesia da Éx, ek, e xaléo, kaleo ‘convocare '), l’altra più ri- Stretta, detta ‘bulé’ (BovAx, borlé * Consiglio ’).

@) ECCLESIA 0 ASSEMBLEA GENERALE DEL PO- POLO. A questa potevano prender parte tutti i

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\ttadini che fossero maggiorenni, e godessero i pieni diritti politici e civili (&ritiztor, epitimot).

Le adunanze ordinarie (voyuytor gxxAnoiat, nomimoi ri k/esiaî) avevano luogo a periodi fissi e determi- nti, più volte nel corso di un anno; le straordi- rie (cvviANTOL ExnAnoia, synkletoi ekklesiai) veni- vino convocate, ogni volta che ve ne fosse bisogno, per mezzo di araldi. Erano tenute a cielo aperto iulla pubblica piazza (dyood, agor4) del mercato, \ piedi dell’Acropoli nei primi tempi, in seguito ulla Pnice (Zvoié, P2yx), piccola altura in città ed vccezionalmente anche nel teatro di Dioniso. Ad ognuno era lecito prendervi la parola ed esporvi liberamente il parer suo, giacchè l'oratore (dr)700, rhelor) era considerato come inviolabile. Egli par- iva con una ghirlanda di mirto in testa, stando in biedi sopra una specie di tribuna, formata da un gron dado di pietra, detto ‘bema’ (fijua, bema

radino ’).

llenchè ognuno potesse prendere la parola, non burlavano di regola che i cittadini più autorevoli per età, per posizione sociale, per cariche che co- }rissero, ovvero quelli che avessero una competenza ben riconosciuta nella materia di cui si trattava,

L'assemblea era presieduta da un membro del Con- iglio, denominato ‘prostate’ (ar000tdt)g, prostates o proedro’ (s0ded00s, fréedros), il quale dirigeva discussioni e provvedeva al mantenimento del- l'ordine per mezzo di funzionari speciali (A7$/agyot, leviarchoi), suoi dipendenti, e di guardie, scelte

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per lo più fra gli schiavi pubblici o dello Stato, detti ‘arcieri’ (rofora, foxotaî).

La discussione era preceduta da una preghiera e da un sacrifizio.

La votazione si faceva di regola per alzata di mano (yeoorovia, cheirotonia); di rado, e solo in casi di singolare importanza, per mezzo di pietruzze (ipo, psephoi) bianche e nere. E le deliberazioni e i decreti, detti ympiouara, psephismata, avevano forza di legge.

Dal tempo di Pericle in poi i cittadini che inter- venivano all'assemblea ricevevano, in compenso del tempo perduto, una retribuzione {uo9dg ExxAnowa- otinÒS, misthos ekklesiastikds), che dapprima era di un solo 6bolo (d0A6g, 080/65, equivalente una volta a circa cent. 16) e più tardi venne elevata a tre Oboli (rowòfozov, triébolon); il che importò una spesa non lieve al pubblico erario.

6) La ‘bulé’, il Consiglio, prima della riforma di Clistene, era composto di 400 cittadini, scelti, non sappiamo come, in numero di 100 per ognuna delle quattro tribù in cui la cittadinanza era divisa. Dopo Clistene il numero dei consiglieri (fovAevrai, bow- leutdi) fu portato a 500, 50 per ognuna delle dieci tribù da lui istituite. Dapprima erano scelti per elezione in ogni tribù, in seguito vennero estratti a sorte per mezzo di fave (fovAevrai dnò nvduov, 6. apò kyamon).

Ma poichè la sorte è naturalmente cieca e poteva designare persone indegne di tenere l’ ufficio di

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tonsigliere, i nuovi eletti, come del resto tutti quelli chiamati a pubblici uffici, erano sottoposti dal Con- riglio cessante ad una specie di esame o inchiesta, alla ‘docimasia’ (doxguacia, dokimasia), per accer- lare che essi possedessero i requisiti o titoli legali, the si ritenevano indispensabili per la carica loro altidata. I consiglieri dovevano aver compiuto 30 inni d'età ed essere sempre stati d’ irreprensibile rondotta, cosicchè fossero nel pieno godimento dei «lititti politici e civili, il che dicevasi ‘epitimia’ imriuia). Quanto all’attitudine o capacità intellet- tuale per fungere da consigliere, questa era sup- posta sufficente in ogni cittadino.

Prima di entrare in carica i nuovi eletti dovevano prestare giuramento, che avrebbero adempiuto il loro dovere con retta coscienza secondo le leggi della città.

Compito precipuo del Consiglio era di esaminare, liscutere e formulare tutte le leggi e le proposte he dovessero essere presentate alla deliberazione lell’assemblea popolare.

Benchè a questa sola spettasse l’ultima e defini: iva decisione, la suprema autorità politica e ammi- \istrativa era tuttavia riposta nel Consiglio, per il di- litto appunto ch’esso aveva di esaminare in pre- cedenza tutte le questioni relative al governo dello Stato e presentare, caso per caso, una proposta preliminare (a0ofovAevua, probolleuma).

| consiglieri restavano in carica un anno; uscen- rlone, dovevano render conto del loro operato, al

4 INAMA.

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pari di tutti eli altri funzionari 0 impiegati, sotto- ponendosi a una specie di inchiesta © rendiconto, detta ‘eutina’ (£DIvva © eÙ90r), elilhyna, euthyne).

Durante l’anno in cui erano in carica i consi- glieri erano esonerati dal prestar servizio militare, avevano posti distinti in teatro e nelle pubbliche solennità in generale, e ricevevano per ogni giorno di seduta un gettone di presenza, come oggidi di- ciamo, vale a dire lo Stipendio di una dramma.

Il Consiglio teneva le sue sedute, quasi gior- nalmente, in un apposito edificio, il ‘buleuterio (BovAevtotor, bouleutérion), posto fra l’Acropoli e la piazza del mercato (dvood, agora). Ma di rado assistevano alle sedute tutti i consiglieri; questo non avveniva che quando dovessero trattarsi fac- cende di straordinaria importanza. Per il disbrigo giornaliero degli affari non ne sedeva che una parte; giacchè il Consiglio era diviso in sezioni, che si succedevano l’una all'altra nel corso dell’anno. Tali sezioni erano quattro al tempo di Solone, di cento consiglieri ognuna. Clistene invece ne formò dieci, corrispondenti alle dieci tribù, costituite da cin- quanta consiglieri ognuna. Ogni sezione teneva, per turno, la direzione del governo per una decima parte dell’anno, vale a dire per 35 o 36 giorni, e negli anni intercalari per 38 o 39 giorni.

I consiglieri della sezione dirigente erano denomi- nati ‘pritani’ (movitave‘, drytaneis), vale a dire capi © primi; ‘pritania’ (novraveia, Prytaneia)si chiamava tanto la' sezione dirigente (i) movraverovoa puii, he

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frylaneriousa phyle), quanto lo spazio di tempo in ill ciascuna sezione rimaneva in carica.

| pritani tenevano le loro riunioni in un edifizio vicino al palazzo del Consiglio, nel ‘Tolo’ (9é64og, llolos Rotonda’). Essi sceglievano nel loro seno ll proprio presidente (&motàry)s, edistates) che, di giorno in giorno, dirigesse la discussione. L’ ‘epi- itate' doveva anche presiedere la riunione dell’as- temblea popolare, se questa avesse luogo nel giorno \tesso in cui toccava a lui di presiedere alla pro- pria pritania,

Anche nel Consiglio le votazioni avvenivano, «li regola, per alzata di mano; solo in casi parti- colari e di notevole importanza la votazione si fa- ceva a scrutinio segreto, come nelle assemblee del popolo.

Il Consiglio dava udienza agli ambasciatori esteri e li presentava, ove fosse d’uopo, all’assemblea popolare. Esso in tempo di guerra riceveva le re- lazioni dei generali come dei suoi inviati all’estero, e di tutto dava poi notizia al popolo. Invigilava anche sull’amministrazione finanziaria dello Stato, esaminava la condotta dei pubblici funzionari quando uscivano di carica, o la loro capacità giuridica ad assumere gli uffici a cui fossero designati a sorte, e in casi eccezionali istituiva processi di carattere politico.

52 Parte seconda

Pubsiici FUNZIONARI E IMPIEGATI.

? 7. GLI ARCONTI. Quando nel 682 a. C. ven nero istituiti i nove arconti annuali, le attribuzioni politiche, giudiziarie e religiose, che prima erano concentrate nel re o nell’ unico arconte a vita o decennale, vennero divise fra i nove.

Il primo di questi era detto semplicemente, per antonomasia, l’arconte, e più tardi l’arconte ‘epo- nimo’ (£r0vvuog, efinymos), perchè da esso era de- signato l’anno in corso, come in Roma dai con- soli. A lui spettava la suprema direzione degli affari politici, presso a poco come oggidi al presidente del Consiglio dei ministri presso noi.

Il secondo era l’arconte ‘re’ (d. Baordevs, a. ba- sileus), e a lui era affidata la cura di tutto ciò che avesse attinenza alla religione e al culto pubblico.

Il terzo era l’arconte ‘polemarco? (di. TOhéua0Yog a. polémarchos), che presiedeva alla difesa del paese, e alle cose militari, una specie di ministro della guerra.

Le funzioni giudiziarie e quelle che si riferivano all’amministrazione interna, erano affidate agli altri sei arconti, detti ‘tesmoteti’ (decuodétat, thesmothe- fat), ossia legislatori e formanti insieme un collegio Speciale, che risiedeva in un locale apposito, detto tesmoteteo (Feguodetzior, thesmotheteion); men- tre invece i tre primi arconti avevano ciascuno una

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\topria sede separata. E tutti insieme i nove ar- vonti in carica ricevevano, a spese dello Stato, il vitto nel tesmoteteo.

(li affari di maggiore importanza erano trattati ilnll' intero collegio, laddove quelli di ordinaria imministrazione e le cause giudiziarie separata- mente dai singoli arconti, secondo le attribuzioni xl ognuno assegnate. Così all’ arconte eponimo umno deferite tutte le cause relative ad interessi Immiliari, nonchè le questioni riguardanti le feste blonisiache, le Targelie e altre. L’arconte re, come tl è detto, trattava le cause di carattere religioso In genere, d’ empietà, di profanazione dei misteri, ecc; il polemarco, oltre quelle attinenti alle faccende militari, anche le cause concernenti i meteci, gli stranieri, gli schiavi, ecc. I litigi infine di carattere privato, che non-fossero di speciale competenza ilell’ uno o dell’ altro dei tre primi arconti, erano risolte dagli altri sei, dai tesmoteti.

% 8. I PUBBLICI FUNZIONARI E IMPIEGATI, Questi, in generale chiamati ‘epimeleti’ (&mus4Agtai, epi- melatài, lat. curatores), erano nominati o dalle sin- vole tribù o dall'assemblea generale del popolo. Quando l’ufficio loro richiedeva cognizioni tecniche e attitudini affatto speciali, poteva essere disim- pegnato che da persone che vi si fossero preparate in modo particolare, la nomina avveniva per elezione (aioeroi, ysigotornioi é., hairetdî, cheirotonetdi e.); altrimenti per mezzo di estrazione a sorte con le fave (drò vduov, apò kyamou). E molti erano gli

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uffici pei quali si presumeva che ogni qualsiasi cit- tadino onesto e sano fosse capace di tenerli conve- nientemente. Ma così quelli eletti, come quelli estratti a sorte erano sottoposti, prima che assumes- sero l’ufficio, alla docimasia, per accertare che go- dessero la piena cittadinanza e quella onorabilità di condotta che era richiesta per tutti.

Gli uffici pubblici erano per lo più gratuiti e tem- poranei o annuali. Soltanto ad alcune categorie era concesso il vitto in comune a spese dello Stato, Gli uffici più umili erano spesso affidati a schiavi (bamotétat, Ayperetai rematori’, poi ‘servi’ in ge- nere), e questi avevano una retribuzione.

Tratteremo delle diverse funzioni amministrative dello Stato distinguendole in quattro categorie : giudiziaria, finanziaria, militare e di sicurezza pub- blica o polizia urbana.

AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA.

% 9. Giupici E TRIBUNALI. L’autorità giudi- ziaria, dopo le riforme di Clistene, risiedeva nel- l'assemblea generale del popolo. Questa estraeva ogni anno a sorte, da ognuna delle dieci tribù, sei- cento cittadini, che avessero compiuto i trent'anni d’età e fossero immuni da ogni censura (&7it1t0t, efifimoi onorati’). I seimila cittadini così eletti co- stituivano per il corso di quell’anno il collegio dei giudici ed erano detti ‘eliasti’ (jAtaotai, heliastiii)

efl m: as:

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lal nome del tribunale Eliea” (‘//Auaia, Heziaia), il siù ragguardevole della città. Prima di assumere ‘ufficio giuravano di osservare rigorosamente le leggi dello Stato e di giudicare secondo queste e secondo la propria coscienza (7ALaotwòs doros, helia- sfikòs horkos). La formola di tale giuramento ci è ancora conservata in un’orazione di Demostene.

Non tutti i seimila giudici così scelti prestavano effettivamente servizio, giacchè mille di essi for- mavano una riserva per supplire, nelle eventuali assenze, gli altri.

I cinquemila giudici effettivi erano ripartiti a sorte, senza tener conto delle tribù donde prove- nivano, in dieci gruppi di cinquecento giudici ognuno, detti ‘dicasteri’ (dexaori)oia, dikastéria). Nei giorni fissati per i processi ogni gruppo si riuniva in qualcuno dei parecchi tribunali, che v’erano in- torno alla piazza del mercato o in altri punti della città, e quivi teneva le proprie sedute. Di questi tribunali, chiamati in genere anch’essi dica- sterî, ognuno aveva anche un suo nome particolare. La sorte decideva di volta in volta quale gruppo di giudici fosse destinato ad uno o ad altro tri- bunale. Le cause e i processi da trattare erano as- segnati ai singoli tribunali secondo la qualità e la specie loro.

Non sempre erano presenti tutti i cinquecento eliasti di un tribunale; perchè le loro decisioni fos- sero valide, bastava la presenza di un numero an- che minore. Il numero era fissato secondo la gra-

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vità e l’importanza delle cause. Nei processi più gravi l’affluenza dei giudici era sempre assai grande, e in casi speciali potevano venire riuniti insieme due o più gruppi di cinquecento giudici in un solo tribunale, o anche eventualmente tutti i cinquemila eliasti dell'annata.

Da principio i giudici non ricevevano alcuna paga; in seguito, su proposta di Pericle, fu asse- gnata'ad ognuno, per il giorno in cui sedeva in tribunale, la retribuzione di un obolo, che da Cleone venne poi aumentata fino a tre oboli.

% ro. ProcepuRA. Innanzi al tribunale degli eliasti venivano portate cause (dixat, dikai) d’ogni specie. Se la causa era d’interesse pubblico, 1’ ac- cusa (&yxAnua, énklema) doveva esser presentata in iscritto ed era detta y0ay:), graphé scrittura’; se invece d’interesse privato, ancorché l'istanza fosse presentata in iscritto, la causa si diceva dix, dike. Le accuse private non potevano esser mosse che dalla parte lesa, le pubbliche da ogni cittadino. Secondo la motivazione diversa il processo assu- meva nomi diversi. E, naturalmente nei singoli casi, gli. atti erano indirizzati a quello tra gli arconti nella cui competenza rientrava la causa.

Gli arconti istruivano il processo con le norme che la procedura indicava interrogando le parti, le quali dovevano prestare giuramento di dire il vero, udendo i testimoni (udorvoes, wirtyres), che, se erano schiavi, potevano anche essere sottoposti alla tortura (fdoavos, bésanos) e raccogliendo i docu- menti, le leggi, i decreti relativi alla causa,

Antichità pubbliche 57

Finita tale istruzione preliminare del processo (avdaxoots, andkrisis), ove l'accusa fosse accolta, ve- niva fissato il giorno (/} xvota juéoa, he kyria hemera) per il suo svolgimento dinanzi al tribunale (£/0av@) rîjs dins, eisagoghè tes dikes); e il magistrato che l’aveva istruita teneva, di regola, anche la presi- denza nella seduta degli eliasti.

Gli avversari dovevano perorare da la propria causa; essi stessi facevano direttamente le interro- gazioni ai testimoni, e ognuno poteva muovere do- mande all’altro. Le leggi invece e i decreti da loro citati venivano letti dal segretario (yoauuareis, grammatéus) del tribunale. Così all’ una come al- l’altra parte era tuttavia permesso di condur seco qualche compagno (curjpogos, svuggzoros), scelto per lo più tra i parenti o gli amici, che le aiutasse col consiglio e, in qualche caso, con la parola, nello svolgimento del processo, Col tempo erasiì perciò venuta formando in Atene una classe di patroci- natori di professione, una specie di avvocati, i quali ai clienti, che a loro ricorressero, indicavano le norme da seguire nel discutere la causa, o prepa- ravano addirittura per loro bell’ e fatti i discorsi da pronunciare innanzi ai giudici. Dalla loro profes- sione questi ‘logografi’ (Xoyoyodgpor, logographoî), cioè scrittori di orazioni (Aéyo, logoi) forensi, ri- Iraevano non di rado lauti guadagni; e la storia letteraria conta fra essi alcuni dei più celebri ora- tori attici, quali Antifonte, Lisia, Iseo, Isocrate e )emostene stesso.

Parte seconda

Il tempo accordato alle parti per i discorsi era li mitato, per impedire che parlatori troppo prolissi facessero tirare in lungo il processo più di quanto fosse necessario. Un orologio ad acqua, la cle- psidra (xAeywidoa, klepsydra, da uAérntew, kleptei ‘rubare’ e {id00, £Aydor ‘acqua’), segnava il tempo concesso. Non era naturalmente calcolato in questo il tempo impiegato per le interrogazioni dei testi- moni, per la lettura delle leggi (vdéuot, zomzoî), dei decreti (ynqiouata, psephismata) e degli altri do- cumenti fatta dal segretario. Durante queste let- ture la clepsidra veniva fermata; donde l’espres- sione: «ferma l’acqua» (&riZafe Hdwo, epilabe to hydor).

I giudici davano la loro sentenza segretamente! votando per mezzo di pietruzze (wo, psephoî) bianche o nere, che deponevano in apposita urna.

Per mettere qualche freno alla mania delle ac- cuse e dei processi, per la quale gli Ateniesi del V e IV secolo si. resero celebri fra tutti i Greci, e per impedire che con troppa leggerezza fossero messe innanzi accuse destituite di fondamento, era minac- ciata una multa non lieve all’accusatore che nella votazione dei giudici non avesse ottenuto in suo favore, per lo meno, la quinta parte dei voti. Nelle cause pubbliche la multa poteva salire fino a mille dramme, aggravata anche dalla perdita del diritto di presentare nuove accuse contro chicchessia.

Le pene erano in generale assai severe: frequen- tissima e applicata a delitti, che nel concetto nostro

Antichità pubbliche 59

possono parere relativamente lievi, la pena di morte ({avatog, thinatos), la quale veniva eseguita con l’ob- llicare il condannato a bere la cicuta (2iven pao- iurov, pinein phirmakon); frequente l’esilio (guy), »hvehé). V'erano inoltre : la prigione (deguotijot0v, desmotérion)i, la perdita dei diritti civili (dra, alinia), la confisca dei beni (d;usvors, dimeusis) e multe di varie specie.

In taluni processi la pena (riuzua, fimema) era giù fissata dalla legge (dy@ves ariuntot, agones ati- metoî), e i giudici, riconosciuta la colpa dell’ accu- uito, non avevano che da applicarla al caso parti- colare. In altri (@v@ves tiuntoi, agones timetdi) | giudici rispondevano in un primo momento sol- into se l accusato fosse innocente o colpevole, e l'iccusatore in tal caso proponeva la pena di cui credesse meritevole 1’ avversario. Questi aveva il liritto di fare una controproposta (awtitiMMo, an- litimesis). I giudici poi decidevano; ma non sap- piamo se essi non potessero che scegliere l’una 0 l'altra delle pene proposte, o avessero facoltà di so- itituirne un’altra che loro paresse più equa.

lisecutori delle sentenze erano gli undici (oi évdexa, hoi héndeka), vale a dire undici impiegati, scelti, a quanto pare, uno da ogni tribù, con l'aggiunta di \n segretario o scrivano e di parecchi inservienti. \d essi spettava anche la vigilanza sulle carceri è sui carcerati, ed eventualmente potevano pure intentare processi contro rei che fossero colti in fla- prante delitto.

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% 11. L’AREOPAGO, Accanto al tribunale degli eliasti' esisteva pur sempre l’ antichissimo e vene- rato tribunale dell’Areopago {tò ér osi rdy@ daotijpiov, fo en Areio pago dikasterion), istituito. secondo la tradizione leggendaria da Atena stessa o da Teseo. Aveva la sua sede sulla collina ad occidente dell’ Acropoli dedicata ad Ares (Marte), dalla quale prese appunto il nome. Era costituito dagli arconti usciti di carica, purchè contro essi non fossero state mosse censure e fossero sempre stati d’irreprensibile condotta. Il numero dei suoi membri era perciò indeterminato.

‘Le attribuzioni dell’ Areopago nei tempi più an- tichi erano assai estese, comprendevano ogni specie. di cause anche d’indole politica, e l'autorità sua era grandissima; ma in seguito, col sorgere e con l’al- largarsi sempre più delle istituzioni democratiche, s'erano venute molto restringendo, per opera so- prattutto di Efialte, al tempo di Pericle. Esso fu conservato d’allora in poi come semplice autorità. giudiziaria per cause criminali, d’omicidio, d’avve-. lenamento, d’appiccato incendio, di tradimento. Gli era pure rimasta la suprema vigilanza sulla corret- tezza dei costumi dei cittadini e sulla retta appli- cazione delle leggi.

Prima di Solone le cause per omicidio erano trat- tate dall'arconte re assistito da un consesso di 51 giudici, detti ‘efeti’ (éperar, ephetai) che com- paiono nella legislazione di Dracone, ma erano certo anteriori ad essa, scelti fra i cittadini d’irrepren-

Antichità pubbliche 61

sibile condotta e di non meno di quarant'anni d’età, Ma Solone deferì all’Areopago tale fatta di pro- cessi, e gli efeti perdettero allora ogni importanza e vennero poi aboliti.

% 12. ALTRI COLLEGI DI GIUDICI. Oltre ai tri- bunali degli eliasti e dell’Areopago, v’erano in ogni tribù collegi di arbitri ($eaurytai, diaîfetdi), che ave- vano il compito di comporre in via amichevole, se fosse possibile, le questioni, sia pubbliche sia pri- vate, prima che venissero portate innanzi ai tri- bunali.

V’era pure un collegio di giudici, che potremmo dire giudici di pace, in numero di trenta (oi tod- xovta, hoi tridkonta) prima di Euclide (arconte epo- himo del 403 a. C.) e poi di quaranta (oi tetta- nixovta, hoi fettardkonta). Questi si recavano, a pe- riodi determinati di tempo, nei diversi demi rurali per giudicare le cause di minore importanza che non superassero la somma di dieci dramme, e le accuse d’ingiurie o d’offese lievi.

Per le cause commerciali, le quali naturalmente in Atene riguardavano soprattutto il commercio ma- rittimo, vi furono per qualche tempo giudici spe- ciali, detti nautodici’ (vavrodirat, naufoditat).

I giudici d’ogni specie erano scelti fra le persone di specchiata condotta, di grande autorità e già innanzi negli anni, non al di sotto dei cinquanta di età.

62 Parte seconda

AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA,

4 13. IMPIEGATI FINANZIARI. L’amministrazion finanziaria dello Stato (xo) doinnotg, koinè diotke- sîs) dipendeva propriamente dal Consiglio, coadiu vato in ciò da impiegati di vario grado e di vari specie. Alla direzione suprema stava un tesoriere detto ‘tamia’ (6 rijs xowng diomijoeog tapias, ho fes koinés dioîkeseos tamias ‘tesoriere dell’ammi- nistrazione ’, ovvero é TOY Kovoy T0066d6v Tania, ho ton koinòn prosodon t. ‘tesoriere delle rendite. comuni’). Questo veniva eletto dall'assemblea po- polare e rimaneva in carica quattro anni. A lui. era affidata la custodia della cassa di Stato; prov= vedeva alla riscossione delle rendite e all’ ero- gazione dei fondi per le spese ordinarie e straor- dinarie occorrenti all’amministrazione pubblica: era insomma una specie di ministro del tesoro. Frai molti impiegati subalterni da lui dipendenti note- remo :

I dieci “poleti’ (sroAn7ai, poletdi) scelti a sorte, uno da ciascuna tribù. Essi dovevano provvedere, dietro norme stabilite, agli affitti dei beni stabili della città, alla riscossione delle tasse imposte ai meteci o ad altri, alla vendita a pubblico incanto dei beni confiscati ai condannati a morte, all’esilio, o ad altri. La sede del loro ufficio era detta po- leterio? (r1wAnmjotov, poletérion).

Antichità pubbliche 63

1 ‘colagreti’ (xoAayosta, kolagretai o voAaroéta, Wolakretai da xodi), Folé coscia di maiale’ offerto in sacrifizio che ricevevano in cambio del danaro che versavano, e dysi00, agheiro ‘raccogliere ’), rac- coglitori d’imposte: tale era il nome prima di Cli- stene. Questi sostituì ad essi dieci apodetti ' (ar0- déxrar, apodektai, cfr. drodégonat, apodéchomai ri-

evere’), scelti anch’ essi a sorte uno per tribù. Dovevano tener nota di tutti i crediti dello Stato, registrare tutti gl’incassi fatti, distribuire le somme

ssegnate dall’assemblea «del popolo ai singoli uffici pubblici, Avevano sotto di sè, quali impiegati su- balterni di grado inferiore, i mountoog (praktores), ossia esattori.

I “logisti’ (Aoyotai, loghistiti) 0, come noi direm- mo, contabili o ragionieri, e gli eutini’ (el9vvot,

eiithynoî) o revisori, dieci di numero gli uni e gli altri,

scelti essi pure dal popolo. Era compito loro di ri-

vedere la gestione finanziaria degli altri impiegati,

di ricevere il resoconto del loro operato, quando

uscissero di carica, e di giudicarlo. L’ufficio in cui

risiedevano era detto ‘logisterio’ (Aoyiotijotor, lo» phisterion).

% 14. Le RENDITE. Le rendite (600, foroi, o soécodor, prosodoî) della città erano altre ordi- narie, altre straordinarie.

a) Le prime provenivano precipuamente dai beni stabili dello Stato, quali campi, boschi, saline è simili; ma soprattutto dalle ricche miniere d’ ar- vento del monte Laurion presso il promontorio

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64 Parte seconda

Sunio, nella parte più meridionale dell’Attica, sco perte, o incominciate a sfruttare nel 483 a. C.

V’erano vari altri cespiti d’entrata, quali la tass di dimora imposta ai meteci e le diverse tass che noi diciamo di esercizio, per le varie profes: sioni o industrie esercitate sia dai cittadini, sia dai forestieri; i dazi doganali d'uscita e d’entrata dell merci; le multe giudiziarie per le condanne; il ri cavo dei beni confiscati ai condannati a morte 0 all’esilio, venduti a pubblico incanto. Ma rendit sopra ogni altra importante, nel tempo in cui Aten teneva l'egemonia sul mare ed era a capo dell federazione degli alleati, era quella dei tributi im- posti a questi (9Joot, phoroi ovvero cvrtatets, Sy taxeis). Tali tributi, prima di Pericle, rendevano alla cassa dello Stato circa 460 talenti ogni anno; al tempo di Pericle, 600 talenti, e salirono più tardi a ben 1300 talenti, equivalenti una volta ad oltre sette milioni e mezzo di lire nostre ('). Ma questa rendita andò soggetta a grandi oscillazioni, secondo la varia fortuna politica della città. Così per esem-

(5) Il talento (t&\avtov, fa/anton: la parola in origine signifi cava ‘bilancia’), era moneta nominale, non effettiva, come, p. es. il nostro milione, Corrispondeva al peso di kg. 26,196 d’argento, ed equivaleva circa a lire-oro 5894. Il talento era diviso in 60 mine, Anche la mina era moneta semplicemente nominale, ed equivaleva circa a 98 lire-oro. La mina era divisa in 100 dramme d’argento. La dramma era moneta effettivamente coniata e aveva, presso a poco, il valore di 1 lira-oro. Era divisa în sei oboli. Lo obolo, di cui v'erano anche spezzati, equivaleva a circa 0,15 nostri.

Antichità pubbliche 65

pio essa venne a mancare interamente ad Atene dopo la disfatta di Egospotami e l’infelice guerra del Peloponneso; ma poi si rifece alquanto nella se- conda federazione 0 simmachia (ovumagia, sym0ra- chia) marittima nel secolo IV.

L'Attica del resto, lo abbiamo notato, non era paese molto fertile, produceva grano sufficente per alimentare tutta la sua popolazione. Questo do- veva essere importato e proveniva per la massima parte dai mercati d’oriente, dalle spiagge soprattutto dlel Ponto Eusino (Mar Nero). Da ciò derivava la grandissima importanza che Atene diede sempre al possesso della Propontide e del passaggio del Bo- «foro, per la conquista e la conservazione dei quali fece sacrifizi e sforzi enormi.

Prodotti agrari di qualche valore erano nell’At- tico l'olio, i fichi e il vino; fra le sue industrie era fiorente quella dei vasi di creta. Ma l’espor- lazione di tali prodotti non compensava di gran lunga la spesa per l'importazione del grano; co- sicchè ad essa dovevasi in parte supplire coi pro- venti delle miniere e coi tributi degli alleati. Ove questi diminuissero © mancassero, le condizioni economiche della città si facevano subito difficili o addirittura miserande.

5) Le rendite straordinarie sopperivano ai bisogni impreveduti dello Stato 0 alle spese che non entra- vano nella normale amministrazione. Consistevano esse in spontanee oblazioni (é71d00815, epidoseis) dei cittadini ricchi e generosi, ovvero in imposte (el0p0-

s INAMA.

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66 Parte seconda

Qui, eisphordi) o contribuzioni messe a carico de cittadini più abbienti, in proporzione alla stima ch lo Stato faceva della loro ricchezza eflettiva o pre- sunta; ciò naturalmente solo in certe occasioni, specie in tempo di pubbliche calamità o di guerre, Le tribù, istituite da Solone sul criterio della ren- dita fondiaria, venivano già per a classificare i cittadini secondo la loro ricchezza, e quindi riu- sciva facile il designarli singolarmente per codest eventuali imposizioni.

Ma dopo l'istituzione delle dieci tribù, fatt con criteri diversi da Clistene, meno agevole tor- nava ai funzionari del governo d’indicare, con equa imparzialità e giustezza, a quali cittadini meglio competesse, di volta in volta, sostenere le spese eventuali di cui la città aveva bisogno, tanto più che accanto alla ricchezza fondiaria veniva sempr più svolgendosi la ricchezza commerciale e indu- striale, meno facile a conoscere e ad accertare, D’ al- tronde, se da principio, quando la città era ancora piccola, essendo rare le occasioni di tali spese vivo nei cittadini l’amore della patria e il desiderio di emergere per i benefizi ad essa prestati, molti si offrivano spontaneamente a venire in soccorso coi loro beni ai bisogni impreveduti del governo, in seguito, mutate le condizioni della città, affie- volito lo spirito di sacrifizio pel paese e peggiorate, anche per le vicende dei tempi, le condizioni eco- nomiche dei singoli cittadini, avveniva non di rado che anche i ricchi si rifiutassero alle nuove impo-

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sizioni, o cercassero con artifizi di sottrarsi agli obblighi loro.

Fu quindi necessario dare un assetto più regolare e stabile anche a così fatta specie di contribuzioni. Vennero istituite allora, verso il 378 a. C., le ‘sim- morie’ (ouustopiar, symmnoriai), ossia gruppi di con- tribuenti. In ognuna delle dieci tribù venivano de- signati 120 cittadini, ritenuti abbastanza ricchi per poter sostenere le imposte determinate; e questi formavano tra loro due simmorie, composte di ses- santa cittadini ognuna. In tal modo si avevano com- plessivamente venti :simmorie, le quali compren- devano insieme 1200 cittadini contribuenti. I quin- dici cittadini più ricchi in ogni simmoria, e quindi in tutto trecento cittadini, costituivano il consiglio di direzione, ossia i capi delle simmorie (#)yeu6ves ov cvupooròv, hegemones ton symmoribn). Ogni qual volta il governo dovesse imporre una nuova contribuzione, i trecento direttori o capi erano ob- hligati a pagarla immediatamente del proprio (s790- eiopagà, procisphord ‘imposta pagata in precedenza’), e poi essi ne facevano la ripartizione, in quote proporzionali, sui ‘simmoriti’ (cuuuogita:, symmo- ritai), cioè sugli altri membri delle singole sim- morie, e ne procuravano la riscossione, rimborsan- dlosi in tal modo della spesa anticipata.

% 15. LE LITURGIE E L’ANTIDOSI.— Oltre a queste contribuzioni eventuali altre ve n'erano imposte ni singoli cittadini per sostenere le spese necessarie alle pubbliche feste solenni, sia religiose sia civili,

Parte seconda

alle rappresentanze della città fuori dei confini del l’Attica in paesi forestieri, ovvero anche all’arma mento della flotta in tempo di guerra. Queste pré stazioni erano dette in genere ‘liturgie’ (Aeurovoyiai letturghiat), ma ognuna di esse era anche designata con un nome particolare, secondo l'occasione e le Scopo per cui era fatta.

Ogni anno, in giorni determinati, venivano cele: brate in Atene certe feste solenni, quali le Panate: nee, le Dionisiache, le Antesterie e molte altre, delle quali parleremo più avanti; nessuna città della Grecia ne ebbe forse tante quante Atene. Ora pei le processioni solenni che in tali feste avevano luoga; peri Cori di giovani, di fanciulle, di uomini adulti; per le rappresentazioni sceniche o per le gare ginna- stiche che in alcune di esse si tenevano, le spese erano spontaneamente assunte da qualche munifico cittadino 0 imposte dal governo a qualche citta- dino ricco, a tale uopo designato.

Queste liturgie) che ricorrevano ogni anno, erano dette ‘gimnasiarchie (yuuvaciaggiar, ehymnasiar= chiaî), se il danaro serviva per le gare ginniche e per le corse con fiaccole in uso nelle feste Pana- tenee, ‘coregie’ (yopnyiat, choreghiai), se per alle- stire i Cori lirici o i Cori dramatici, teorie ‘teorie *. (Vemgiar, theoriai), se per accogliere e ospitare rappresentanti di città o di Stati esteri venuti ap- positamente ad assistere alle feste in Atene, ovvero. anche per mandare rappresentanti di Atene in altre città; ‘estiasi’ (é0rido&g, hestiaseis, da torto, he-

Antichità pubbliche 69

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stiao convitare ’), se per il banchetto, che il citta- dino più ricco era tenuto, in occasione di qualche festa, ad offrire ai concittadini ascritti alla propria tribù.

Notevole fra tutte le liturgie, e per la frequenza sua e per la spesa non lieve che importava, era la coregia’, e soprattutto la coregia dramatica, Il ‘co- rego’ (xoony0s, choregoòs: così chiamavasi il cittadino che sosteneva la spesa) doveva raccogliere i co- risti (yogeurai, choreutai), istruirli 0 farli istruire da un maestro di canto (yogodiddorados, chorodida- stalos), mantenerli durante la loro istruzione e sce- gliere il poeta che componesse il coro o il drama, se si trattava di rappresentazioni sceniche, con la musica relativa. Per le rappresentazioni teatrali il corego doveva anche pensare alla spesa per gli attori {brroxorrai, Aypokritài), al loro vestiario, a tutto ciò che fosse necessario per l'allestimento scenico.

Per tutte queste spese, che a lui incombevano, la somma necessaria era maggiore o minore secondo la solennità, lo sfarzo, il lusso che alla rappresentazione egli voleva o doveva dare, ma lieve non era mai. Essa oscillava di regola fra le duemila e le cinquemila dramme, ma alle volte saliva anche più in su. Quando poi si pensi alle molte feste, che ogni anno ave- vano luogo in Atene, e si consideri che in alcune i Cori allestiti erano parecchi, perchè si bandivano per essi formali concorsi, e in forma di concorso avevano luogo le rappresentazioni dramatiche, con-

70 Parte seconda

corso al quale prendevano parte tre coreghi, quindi anche tre poeti, ciascuno dei quali presen- tava quattro componimenti (retoaZopia, fetraloghia), cioè tre tragedie e un drama satiresco (odrvoot, sdtyroi), si vedrà come grande fosse il numero dei cittadini delle classi più ricche o agiate aggravati. per tale specie di liturgie, e come perciò fosse na- turale che molti cercassero di sottrarvisi.

Più gravosa, ma straordinaria e imposta solo in tempo di guerra, era la ‘trierarchia’ (700 gagyia, frierarchia). Questa imponeva l’obbligo di armare, in pieno assetto di guerra, una trireme. (tomons, trieres) che potesse far parte della flotta. dello Stato. Il cittadino, cui era imposta tale li-. turgia, era detto ‘trierarco’ (r0uj0aoyos, trigrarchos); il governo dava a lui lo scafo e l’albero della nave, ed egli doveva, a proprie spese, provvedere le vele, il remeggio e tutti gli attrezzi necessari, perchè la nave potesse tenere il mare; doveva inoltre racco- gliere, per lo più nella propria tribù, i marinai (vabta, nautat) che la montassero, equipaggiarli. convenientemente, esercitarli e mantenerli. L’ob- bligo della trierarchia, per chi v’era designato, du-. rava per un intero anno. La spesa ammontava presso a poco a quaranta mine, vale a dire a quat- tromila dramme d’argento, equivalenti a quattor- dicimila circa lire-oro. Quando le condizioni eco- nomiche dei cittadini erano molto fiorenti, non era difficile il trovare un certo numero di essi, che potessero, senza troppo grave danno, assumersi la

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spesa; ma in seguito, allorchè le ricchezze private erano scemate assai, ben pochi cittadini avrebbero potuto da soli accollarsi l’obbligo d’una trierarchia. Allora lo Stato permise che due o più cittadini si. \nissero insieme per allestire d'accordo una trireme; e in seguito anche questa liturgia venne regolata, verso il 357 a. C., sul tipo stesso delle simmorie, A tale scopo i mille e dugento cittadini più ricchi vennero distribuiti in venti classi o gruppi, di ses- santa ognuno, detti ‘sintelie’ (cuviéAziat, syntéleiat).

ANTIDOSI. Per ovviare al pericolo che un cit- (adino venisse ingiustamente aggravato, o per €r- rore o per malizia, con l’imporgli una liturgia che a lui non spettasse, era permesso, a chiunque vi fosse designato, d’indicare un altro cittadino, al quale, secondo il parer suo, meglio che a lui competesse l'obbligo di sostenerla, sia perchè più ricco, sia perchè da più tempo non vi avesse contribuito. In questo caso, se il cittadino in tale modo designato non voleva assumersi la liturgia spontaneamente, il primo cittadino poteva proporgli la permuta dei beni, il che dicevasi ‘antidosi’ (avtidocig, antidosis) ; vale a dire egli cedeva all’altro le proprie sostanze e si prendeva in cambio quelle di lui, e con queste issumeva l'obbligo di sostenere la liturgia che lo itato gli aveva imposta. Le pratiche giudiziarie e processuali per tale permuta di beni, a noi note oltanto in parte, erano assai minuziose e intricate, osicchè i processi per antidosi riuscivano sempre grave molestia e di danno non lieve ai cittadini \ cui erano intentati.

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% 16. LA SPESA o uscITA. Varie e non lie erano le spese dello Stato che, come le entrate, s distinguevano anch'esse in ordinarie e straordinarie, queste ultime provocate soprattutto da guerre o d pubbliche sventure che colpissero la città.

Ordinaria era la spesa pei numerosi impiegati del governo, Quelli che tenevano i più alti uffici non erano veramente retribuiti con stipendio in denaro ma ricevevano di regola il vitto a pubbliche spese nel locale della propria sede. Le spese, da principio relativamente lievi, andarono man mano crescend a misura che si venne svolgendo la democrazia. Giacchè i consiglieri, che dapprima esercitavano l’ufficio loro affatto gratuitamente, ricevettero in seguito la retribuzione di una dramma per ogni seduta, e così pure i cittadini, che intervenivano. alle assemblee del popolo, ebbero ciascuno un obolo, compenso che fu poi aumentato a tre oboli.

Misura anche più gravosa riuscì l’istituzione della retribuzione che potremo chiamare teatrale, il così detto ‘teorico’ (92006, theorikon), avvenuta verso il 410 a. C., durante la guerra del Peloponneso. Per esso si davano due oboli (dlwfedia, diobelia) ad ognuno che volesse assistere alle rappresenta. zioni dramatiche delle feste Dionisiache, in altri termini gli si assicurava l’ingresso gratuito a teatro. Strana disposizione davvero; ma fu introdotta non tanto per un sentimento d’ uguaglianza democra- tica fra tutti i cittadini, ricchi e poveri, e nem- meno perchè il teatro fosse ritenuto, come oggidi

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molti pretendono, educativo, quanto piuttosto per un sentimento religioso. Le rappresentazioni sce- niche infatti facevano parte della solennità reli- giosa, erano sorte da un sacrifizio a Dioniso, non pareva quindi equo conveniente che alcuni, per mancanza di mezzi, fossero impediti di parteciparvi.

Anche le numerose feste che si celebravano in Atene importavano non lieve dispendio allo Stato, giacchè quantunque si provvedesse a molte spese con le contribuzioni dei privati, per mezzo, come si disse, delle liturgie, ne restavano sempre molte altre che erano a carico del governo. A carico di questo erano pure molte spese, con carattere esclusivo di beneficenza, quale p. es il sussidio che si so- leva concedere a cittadini, che fossero, per infer- mità, incapaci di procurarsi da il vitto (ddu vatot, adynatot). Altra spesa richiedevano i sussidi accordati ai cavalieri, poichè la cavalleria in Atene, oltre che a servire in guerra, era tenuta a far bella mostra di nelle pubbliche e solenni processioni, aggiungendo ad esse sfarzo e decoro.

POLIZIA URBANA.

} 17. Gli Ateniesi ebbero cure speciali perchè la loro città fosse non solo bella per monumenti artistici, ma anche linda e pulita, e perchè la vita sociale si svolgesse ordinata, tranquilla, disciplinata, vradevole sotto ogni riguardo e per i cittadini e

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per i forestieri che la visitavano. Dieci ‘astinomi? (dotvvo sot, astyunomotî) o regolatori della città, eran scelti a talé Scopo ogni anno, probabilmente estratti a sorte, uno per ciascheduna tribù. Questi dove. vano vigilare perchè le nuove costruzioni, pub- bliche e private, sorgessero senza ingombrare le vie e le piazze, le acque correnti o pluviali scor- ressero libere senza recare danno o molestia alla città, fossero tenuti sgombri i pubblici passaggi, la tranquillità pubblica non fosse turbata da schia- mazzi, da risse, da disordini; ecc. Cinque di questi astinomi prestavano l’opera loro nella città e cinque. nel Pireo, il porto principale d’Atene, che quantun-. que lontano ben tre chilometri, formava parte inte- grante di essa, congiunto come era da una lunga e ampia via rinchiusa ai lati e protetta dalle famose ‘lunghe mura’. Gli astinomi avevano sotto la loro dipendenza molti altri impiegati subalterni per ac- cudire alle mansioni più umili o più faticose, quali gli spazzini o coprologhi’ (x0rx00A6yor, koprologot), e simili,

Città eminentemente commerciale, Atene aveva speciali impiegati per invigilare sui pubblici mer- cati, gli ‘“agoranomi’ (dvogarduot, agoranomot), 0 regolatori del mercato (dyood, agorà). Questi pure erano dieci, cinque per la città e cinque per il Pireo, scelti probabilmente al modo stesso degli astinomi. Ispettori appositi, v’erano inoltre per il commercio dei generi alimentari, del grano, delle farine, delle frutta, delle vettovaglie in genere, Dieci

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ussi pure, cinque per la città, cinque per il Pireo, badavano se la merce fosse sana © avariata, e de- ridevano le questioni che eventualmente sorgessero Ira compratori e venditori.

Anche per i pesi e per le misure la città prov- vedeva con pubblici ufficiali, perchè non venis- sero alterati a danno dei compratori. Erano questi i | metronomi (uetoovduor, metronomot), 0 regolatori lella misura (w&r00v, metron), ed erano dieci per \n città, cinque per il Pireo, quindici in tutto. Anche ille strade soprintendevano sorveglianti governativi (oi 6dov empueAgtai, hoi odòn epimeletài curatori dlelle vie’), perchè queste fossero mantenute in buono stato.

Per appoggiare efficacemente l’opera di questi addetti alla pulizia urbana, adoperando eventual. mente anche la forza, v'era un corpo speciale di guardie di città, quegli arcieri (tosotat, toxotai) a cui abbiamo accennato. Erano arruolati fra gli stra- nieri, per lo più Sciti d’origine, cosicchè non di vado li troviamo designati appunto anche con questo nome.

AMMINISTRAZIONE DELLA GUERRA.

3 18. I CAPI DELL’ESERCITO. La suprema di- rezione di tutto quanto si riferiva alla guerra e alla difesa del paese e il sommo comando dell’esercito in campo spettava in origine al re, e più tardi al- l'arconte, quando questi ne prese il luogo. In se-

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guito, quando vennero istituiti i dieci arconti an- nuali, le cure per l’esercito e per le faccende. militari furono affidate al terzo arconte, al pole- marco, che funzionò da ministro della guerra. Ma con le riforme di Clistene l’autorità di lui venne molto diminuita, Furono istituiti allora i dieci stra- teghi? (oroarmyoi, strategdi) annuali. Questi dove- vano essere subordinati al polemarco, ma un po’ alla volta essi usurparono non poche attribuzioni di lui. e specie in tempo di guerra può dirsi che si sostituissero ad esso quasi in tutto. Venivano nomi- nati ogni anno dall’assemblea del popolo per vota- zione, uno per ognuna delle dieci tribù ; erano scelti fra i cittadini più notevoli, reputati intelligenti nelle cose militari. Queste d’altronde non erano ancora riguardate come un’arte speciale, che richiedesse in chi dovesse esercitarla attitudini particolari e cognizioni tecniche. Come ogni cittadino era sol- dato, così ogni cittadino doveva intendersi suffi- centemente di guerra e di milizia. Gli strateghi formavano una specie di collegio e di tribunale militare, che aveva una propria sede, detta appunto ‘strategio’ (otoatijpiov, stratéghion) nell’agora, dove ricevevano anche, a spese dello Stato, il vitto. A somiglianza dei pritani, anche gli strateghi tene- vano per turno, un giorno ciascuno, la direzione degli affari e la presidenza del loro collegio.

In tempo di guerra essi comandavano tutti e dieci insieme l’esercito. Senonchè ben presto si vide che era necessario, perchè le cose procedessero meglio,

Antichità pubbliche TI

che la direzione suprema fosse concentrata in mano di uno solo e guidata da una sola mente. Dopo le guerre persiane infatti, quando l’esercito usciva in campo per qualche spedizione militare, il co- mando n’era affidato ad uno solo degli strateghi, e gli altri rimanevano in città. Che se mai fosse necessario spedire contemporaneamente più eser- citi in luoghi diversi, allora alla testa di ognuno era posto uno stratego, e non più.

% 19. L’ ESERCITO. Atene non ebbe esercito (oroatos, stratòs, otgattà, stratia, otgatevua, stra- leuma) permanente, al modo degli Stati moderni, come non l’ebbe nell'antichità nessun altro Stato della Grecia. Solo quando ve ne fosse bisogno, in tempo di guerra, esso veniva formato, chiamando sotto le armi i cittadini adulti, che fossero capaci d'usarle. Tutti indistintamente erano obbligati al servizio militare. Però solo in casi affatto ecce- zionali si entrava in campagna con l’intero eser- cito (navoroatia, panstratia, avverbio); di regola non era chiamato a prestare servizio se non quel dato numero di cittadini, che si credesse neces- sario per l'impresa che voleva farsi. Una sufficente preparazione militare era da supporre in ogni cit- ladino ateniese, giacchè l’educazione della gioventù aveva in buona parte carattere militare. A questo soprattutto miravano gli esercizi ginnastici, appresi nelle palestre e nei licei dai giovanetti sotto la di- rezione d'un apposito maestro (srardotgit75, paido- tribes). L'uso delle armi era quindi comune a tutti,

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e tutti erano addestrati e temprati per le faticl i disagi della guerra. I giovani ateniesi, giunti & l’età di 18 anni, prestavano il giuramento di citta: dino, ed erano compresi nella classe degli efebi (&pnfor, épheboi) e per due anni venivano allora più particolarmente esercitati per la vita militare e per la guerra.

L'obbligo comune di prestare servizio militare durava dai 18 ai 60 anni. A tale scopo il governo teneva un regolare registro di tutti i cittadini (xataRo0yos, katalogos), distribuiti in classi, secondo l'anno di nascita. Di tali classi, che potremo dir di leva, ve n'erano dunque 42. Ogni anno ne veniva aggiunta una nuova, di quelli che avevano com- piuti i 18 anni, e ne era cancellata una, di quelli cioè che avevano oltrepassati i 60. Ciascuna classe prendeva il nome dall’arconte dell’anno in cui era. Stata registrata la prima volta; cosicchè questi ca- taloghi formavano una serie di quarantadue arconti.. In caso di guerra era chiamato sotto le armi quel. dato numero di classi, che si credesse necessario per essa, e le classi levate venivano designate col nome dell’arconte ad esse relativo. Le due prime, formate dagli efebi, non erano quasi mai mandate a combattere fuori dei confini dell’ Attica, ma po- nevansi a custodia, di regola, dei luoghi forti lungo i confini di questa. Perciò erano detti anche pe- ripoli’ (sregizro4or, periboloi) e peripolarco? (sre0t- nohaogos, peripélarchos) il loro capo.

Ogni singolo cittadino doveva provvedere da

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Antichità pubbliche 79

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alle proprie armi; e doveva perciò, secondo che | mezzi gli permettevano di armarsi più o meno compiutamente, far parte dell'una piuttosto che dell'altra categoria di soldati di cui Vesercito si componeva, servendo cioè piuttosto a cavallo che a piedi, o nella fanteria pesante piuttosto che in quella leggera.

è 20. LA FANTERIA. Il nerbo dell’esercito era costituito dagli opliti (6sr4tra, hoplitai), vale a dire da fanti, armati di tutto punto, e con armi (0744, hopla) pesanti di difesa di offesa.

Gli opliti erano armati 4) di elmo (xodvos, kra- nos) di metallo, che copriva tutto il capo e pro- teggeva anche la faccia, con paranaso e para- guance (magayvatides, paragnathides); 5) di co- razza (90006, thorax) di cuoio o di tela di lino, con placche di metallo, la quale difendeva il petto e la schiena. Al di sotto della corazza pendevano delle larghe liste di pelle, dette ntÉOvyEs, piéryghes, ali”, che formavano una specie di tunica svolaz- zante a protezione delle cosce del ventre; 6) di schinieri (nude, Azemides) di metallo che co- privano sul davanti l’intero stinco, dal ginocchio fino al malleolo. Oltre a ciò, l’oplita portava @ propria difesa lo scudo (doris, aspis) di metallo o di legno coperto di cuoio rinforzato con pia- ire metalliche, ovale o rotondo di mediocre erandezza. Quali armi d’offesa gli opliti usavano lancia (déov, dory) e spada (gipos, xiphos) 0 scia- bola (udyara, mdchaira). Ogni oplita aveva con

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e manteneva a proprie spese un attendente (0venoetis, Ayperetes), il quale nelle marce gli por- tasse le armi più pesanti e lo scudo; perciò questo Servo era detto anche ipaspista ? (iraoniotijs, hypa- spisfés) o scudiero,

Una fanteria più leggera era costituita dai pel- tasti’ (wreAtaoti)s, peltastés, pl. rteAraorai, peltasiai), così denominati perchè armati d'un piccolo scudo rotondo, facile a maneggiare, per lo più contesto di vimini e ricoperto di cuoio, detto pelta’ (sre4ti), pelté). I peltasti non avevano elmo, corazza, gambali, e per armi d’offesa solamente due gia- vellotti (dubvzia, aXontia) e la spada. Il giavellotto era alquanto più breve della lancia, e scagliavasi contro il nemico a pochi passi di distanza. Perciò ogni peltasta ne portava due, giovandosi con abi- lità del secondo per poter ricuperare eventualmente il primo lanciato, Una terza categoria di fanti, anche più leggermente armati dei peltasti, e però più spediti e agili nei loro movimenti, erano i ‘gimneti’ (vusmijs, ghymnés, pl. yvuvirs, ghymnetes, detti an- che yuAoi, psildi ‘nudi’}; questi non avevano scudo, ma semplicemente due giavellotti, ovvero l’arco (rofov, foxon) o la fionda (opevòova, sphendone), e dal nome dell'arma erano detti giavellottieri (axov- total, aRontisiti) o arcieri (toéotar, forotaî) o from- bolieri (cpevdovijtat, sphendonetaî).

Mentre la fanteria delle due prime categorie, opliti e peltasti, era costituita tutta di cittadini o di meteci, chè questi pure erano tenuti al servizio

a forma dell’elmo e dello scudo),

Atena (Minerva) "per mostrare l

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militare, i gimneti invece erano non di rado arruo- liti anche tra gli schiavi, ovvero fra stranieri: gode- vano infatti nome di ottimi arcieri i Traci e i Cre- esi, di valenti frombolieri i Rodî e gli Acarnani, è di peltasti i Traci.

L'esercito degli opliti constava di dieci schiere (rk&s, taxis, pl. tUÉers, taxeis) o, come noi di- (emmo, reggimenti, composta ciascuna, in origine, ilì mille uomini, ma il numero andò poi variamente oscillando nei diversi tempi. Ogni schiera era co- mandata da un ‘taxiarco’ (tatiaoygos, faxiarchos), una specie di colonnello nostro. La schiera era ilivisa in compagnie, in ‘“lochi’ (Adyot, Zochoî), di virca trecento uomini ognuna, agli ordini d'un ‘locago” (Aogayv0s, lochagdos) o capitano. Ogni loco era suddiviso in diecine, con a capo un ‘decadarco’, in decurione (dexddòagyzos, dekadarchos) e ogni die- cina in cinquine, con a capo un pempadarco (ne pusrdda0Y0S) pempddarchos), corrispondenti a un lipresso ai nostri sottotenenti e caporali.

I taxiarchi erano eletti e nominati ogni anno nell'assemblea popolare, al modo stesso degli stra- teghi; ma gli ufficiali subalterni pare venissero scelti dai rispettivi taxiarchi. Oltre a questi capi e comandanti, i quali, ben s'intende, non presta- vano effettivo servizio che in tempo di guerra, verano naturalmente nell'esercito e trombettieri (oaArryutai, salpingitdi, da o&Amyé, salpina * tromba’) è meccanici, e medici (èargoî, iatréi) e sacerdoti 0 indovini (ie02%, hiereîs; ulvteg, manteis) per i sacrifizi, e altri addetti a vari uffici,

6 INAMA.

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de

82 Parte seconda

L'esercito degli opliti e dei peltasti soleva esser accompagnato in campo da truppe leggere,

% 21. LA CAVALLERIA. La cavalleria (i) frumog. he hippos) ebbe sempre una parte secondaria e relativamente molto subordinata nell’esercito ate. niese, per il quale essa aveva assai minore impor: tanza che non ne avesse in Tessaglia e in Beozia, dove le estese pianure e le praterie meglio si pre- stavano dell’arida Attica all'allevamento dei cavalli. In Atene militava tra’ cavalieri solo chi potesse mantenere a proprie spese un cavallo; la cavalleria era quindi costituita dai giovani delle classi più ricche ed elevate della cittadinanza. Fino al temp di Demostene il numero di questi era di un mi- gliaio circa in tutto. Lo Stato pagava ad ogni cava- liere un modesto soldo d’ingaggio per l’equipag- giamento.

La cavalleria era divisa in due corpi, comandato ciascuno da un ‘ipparco’ (imraozos, hipparchos), e gl’ipparchi venivano scelti, ogni anno, dall’assem- blea del popolo, al modo stesso degli strateghi. i

Anche per la cavalleria, come per l’esercito degli opliti, il governo teneva regolari registri o cata- loghi.

Ogni corpo formato su cinque squadroni (quidi, phylai), di circa sessanta cavalieri ognuno, era co-. mandato da un ‘filarco’ (pvAagyos, bAjlarchos). E lo squadrone a sua volta diviso in sei diecine, a ‘ognuna delle quali stava a capo un decadarco.

I cavalieri erano armati di una corazza speciale

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(1000 lmmuòs, thoraa hippikos | corazza da caval- leria?), di spada e di due lance, ma non avevano, naturalmente, scudo. Anche il cavallo era protetto, contro i colpi del nemico, da frontali (ITOOUETOITÒLOV, prometopidion)i 0 da pettorali (n0ooteoridiov, Pro- sternidion) di cuoio 0 di metallo.

Oltre a questa cavalleria pesante, v'era pure nel. l’esercito ateniese un corpo di cavalleria leggera, armata semplicemente di spada e d’arco. Questi arcieri a cavallo (imzrorotstat, Rippotoxotai) erano per lo più mercenari o schiavi pubblici, arruolati fra i Traci e gli Sciti, dove tale specie di truppa era indigena e rinomata per l'abilità nel maneggio dell'arco e per la celerità dei suoi movimenti.

è 22. La rLOTTA, Nei suoi primi tempi Atene fu potenza piuttosto terrestre che marittima, per essa la flotta (al ves, hai nees ‘le navi’, vaw- rivòv, fo nautikon ‘la flotta?) aveva grande impor- tanza. Nella guerra contro Egina non possedeva che cinquanta navi. Ma dopochè, per opera soprattutto Temistocle, Atene diventò Stato eminentemente marinaro, la sua flotta crebbe assai e superò in breve quella di Corinto e di ogni altra città greca. Nella battaglia all’Artemisio e in quella di Salamina la lotta greca era costituita per la maggior parte dalle navi di Atene, che erano ben 180. Allorchè essa ti mise a capo della lega marittima (cvuuagzia, inrmachia) di Delo, la sua flotta aumentò fino a lrecento navi, chè tante ne possedeva al principio della guerra del Peloponneso. Ma alla fine infelice

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di questa fu quasi del tutto annientato il suo navi- glio che essa dovette consegnare agli Spartani, conservando per solo dodici navi da guerra. Se non che poco dopo si rialzò; e nel 378, quando Atene costituì la seconda lega marittima, essa potè contribuirvi con ben 1oo navi, e nel 330 ne con- tava 410, e possedeva parecchi arsenali.

La nave da guerra era anticamente la quinque- reme (7evr)jons vavs, penteres natis), nave a cinque ordini di rematori, sovrapposti gli uni agli altri. Ma ben presto essa fu sostituita dalla trireme (toujons, trieres, sottint. vadg) a tre soli ordini di rematori, molto più rapida e agile nei suoi movi- menti, ed egualmente resistente alla difesa e al- l’assalto. In questo essa tentava di colpire le navi nemiche nel fianco con la punta ferrata e robusta della propria prora, detta ‘embolo’ (&ufoAov, ém- bolon), Inventori della trireme furono i Corinzi, e dicesi che Aminocle di Samo avesse costruito per loro appunto la prima trireme che solcasse le onde del mare greco.

Accanto alle triremi, navi di combattimento, la flotta ateniese disponeva d’un numero non piccolo di lunghe navi da trasporto.

Le navi dello Stato erano conservate in appositi arsenali (vavoradua, naristathma ovvero veDoia, neb- ria). In tempo di guerra si provvedeva al pieno allestimento della flotta con la trierarchia.

La trireme era montata, tra marinai (vadra, nautai) e rematori (é0état, eretai ovvero uommniata, kope-

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latai), da circa 170 persone, oltre ai soldati di ma- rina combattenti, detti ‘epibati’ (mata, epidafat), armati di lunghe lance (Séoara vavuaya, dorata nattimacha ‘lance da combattimento navale’) e di ramponi per afferrare e tener ferme le navi ne- miche.

Per invigilare sulla flotta e provvedere al suo ordinamento e alla sua conservazione, venivano nominati ogni anno, dall'assemblea del popolo, al modo stesso dei capi supremi dell’esercito di terra, speciali arconti o direttori dell’arsenale (doyovtes èv tolg veomgiors, dinchontes en fois neoriois coman- danti negli arsenali’ ovvero émue4yrai tOv vea- picov, epimeletài ton neorion ‘curatori degli arse- nali’) coadiuvati, secondo il bisogno, da parecchi altri impiegati subalterni. Tali erano i dieci “apo- stoli’ (dzrooroAeîg, apostoleîs), detti così perchè era loro compito procurare che le navi, alla partenza per qualche spedizione guerresca (drr0oté44®, apo- sfeZlo ‘spedire’), fossero in pieno assetto di guerra,

è 23. I MERCENARI. L'esercito ateniese era costituito, come si è detto, di cittadini, e da citta- dini era comandato e guidato in guerra. Finchè le guerre non furono molto frequenti molto lunghe, e si combattevano contro città vicine, e quindi le spedizioni militari poco s’allontanavano dai confini dell’Attica, e finchè l'amor patrio e lo spirito militare furono vivi e vigorosi nell'animo di tutti i cittadini, questi ben volentieri si prestavano al servizio nell’esercito e partecipavano ai rischi

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della guerra. Ma, mutate queste condizioni, i citta dini, obbligati a rimanere troppo lungo tempo lon tani dalle proprie case e a trascurare le proprie fac cende domestiche e i loro affari industriali o com: merciali, si adattarono sempre più con minor vogl a e slancio patriottico a servire nell’esercito. La città ricorse allora, da principio moderatamente, poi sem pre più spesso, all’uso dei mercenari (L090Pd00w misthophorot). :

Le città e i tiranni della Sicilia ne avevano dato il primo esempio, giacchè Siracusa contro i su si nemici aveva assoldato genti nel Peloponneso, e di qui aveva fatto venire il generale che le coman- dasse, L’uso funesto di eserciti mercenari e di capitani non cittadini, ma stipendiati e scelti tra j forestieri, si diffuse purtroppo rapidamente in altre parti della Grecia e fu seguito anche da Atene, soprattutto dal IV secolo in poi.

Le condizioni politiche e sociali della penisola; sconvolte e turbate dopo la guerra del Pelopon: neso, resero sempre più facile trovare nelle sue varie province gente pronta a porsi agli stipen di chi meglio la pagasse, e capitani di ventura, quali, senza amor patrio e senza interesse al di fuori di quello di far bottino e di acquistare qualche rinomanza, si davano al mestiere delle armi, come a una professione per guadagnarsi la vita. Le tristi conseguenze per Atene di tale stato di cose e del l’uso delle truppe mercenarie o straniere sono messe in evidenza di continuo nelle patriottiche orazioni! di Demostene.

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% 24. MACCHINE DA GUERRA. Per espugnare città cinte da mura o luoghi fortificati i Greci ave- vano inventato, o imitato da altri popoli, molti e vari meccanismi, che tenevano il luogo, presso a poco, delle nostre artiglierie. Tali erano le testuggini (2A©vat, chelonai) specie di gallerie coperte, mo- bili, con le quali gli assedianti procuravano di avvicinarsi, senza pericolo d’essere offesi, alle mura nemiche; tali gli arieti (xoioi, #r70t), formati di lunghe travi, munite sulla estremità di robuste teste di metallo e sospese in bilico su appositi e alti ca- valletti. Dalla forma che si dava a questa testa, che di solito era quella d’una testa di montone, dal modo di adoperarla a colpi ripetuti contro le mura lella città assediata, somiglianti al cozzo degli arieti in lotta tra loro, queste macchine prendevano dp- punto il nome di arieti. Macchine ingegnose v'e- rano pure per lanciare grosse e pesanti pietre (se- rooféAor, petroboloi), e torri di legno robuste, che potevansi muovere su ruote e avvicinare alle mura, in modo che da esse i combattenti potessero pas- nre su queste e penetrare nella città nemica. Ce- lebri per l’uso di nuove e strane macchine belliche furono l'assedio di Tiro e quelli di altre città con- lotti da Alessandro il Grande.

Parte seconda

LA LACONIA E SPARTA.

% 25. LA LAcoNIA (i) Aaxovoa), he Lakoniké). Verso il XII secolo a. C. i Dori invasero il Pelopon: neso, oggi Morea, che era allora occupato dagli Achei. Secondo la leggenda, i Dori vennero capi; tanati in questa impresa dai tre fratelli, della fa miglia degli Eraclidi, Temeno, Cresfonte e Aristo: demo, i quali divisero la penisola in tre grandi regni, occupando il primo l’Argolide, il secondo la Messenia, il terzo la Laconia.

La Laconia è la parte più meridionale del Pelo ponneso, lunga circa 14 miglia, larga 9, e ha una superficie di circa 100 miglia quadrate. Era paese in gran parte coperto da selve e più adatto perciò alla pastorizia e alla caccia che all’agricoltura, ben: chè qualche sua parte si presti ottimamente anche a questa, Tale è la valle principale di essa, quella cioè del fiume Eurota, fiancheggiata ad occidente dal monte Taigeto, che si eleva ad oltre 2000 mett sul livello del mare, ad oriente dal monte Parnone alquanto più basso.

Nella valle dell’Eurota i Dori occuparono la città di Sparta (Swrdotn, Sparte) e ne fecero la capitale! del loro nuovo regno. Ma Sparta non era una città

Antichità pubbliche 89

tutta riunita in un solo centro di popolazione; essa era costituita da cinque villaggi, vicini bensì tra loro, ma separati e divisi, con un mercato (dyogd, agord) centrale comune e con un tempio comune, dedicato ad Artemide. La città era aperta; solo molto tardi, al tempo del re Nabide, nel 207 a. C., venne circondata da mura.

La leggenda narrava che Aristodemo fosse morto prima della fondazione di Sparta, che gli fossero succeduti sul trono i due figliuoli Euristene e Procle, e che i discendenti dell’uno e dell’altro continuassero poi a tenere contemporaneamente insieme il regno. Perciò si ebbero in Sparta due re, l’uno della famiglia degli Agidi, l’altro della famiglia degli Euripontidi; giacchè invece di deno- minare le due famiglie regnanti da Euristene e da Procle, si preferì di chiamarle l'una dal nome di Agide, figlinolo del primo, l’altra da quello di Kiuriponte, nipote del secondo.

Gli Achei, che prima della venuta dei Dori oc- cupavano il Peloponneso e la Laconia, erano genti wreche affini alla stirpe degli Ioni, o forse identiche dl essa. Queste genti nella Laconia vennero dagli invasori Dori in parte scacciate, in parte asservite; è in più dura servitù furono ridotte quelle tra esse che opposero più lunga e ostinata resistenza.

l dialetto parlato dagli Achei era certamente di- verso da quello degl’invasori; ma col tempo il popolo assoggettato adottò esso pure il dialetto dei conquistatori, e così tutta intera la popolazione

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della*Laconia fu considerata come di stirpe schiet: tamente dorica. Tuttavia i vinti non ottennero mai il pieno godimento dei diritti politici nel nuov regno. % 26. DIVISIONE DELLA POPOLAZIONE. I Dori nella Laconia, come pure nelle altre regioni della. Grecia da loro occupate, erano distinti in tre classi o tribù, denominate degli Illei (‘YAetg, 4v2/eîs) dei Dimani (Awuaves, Dymanes) e dei Panfili (Jaw puhot, Pimphyloi). Ma questa distinzione non avev importanza alcuna nella costituzione dello Stato, perchè di fronte alle popolazioni soggette ogni di visione scompariva, e tutti i Dori erano tra loro eguali (6uotot, Abmozoi). a) Nella Laconia i Dori erano concentrati nella città capitale e designati col nome di Spartia (Zraoriatay Spartiatai). Essi soli avevano parte nel governo ed erano nel pieno godimento dei diritti politici e civili. 6) Accanto ad essi, ma abitanti nelle campagne circostanti a Sparta, e negli altri villaggi della La- conia vivevano i discendenti degli antichi Achei Questi, denominati Perieci (//eoioor, Perioiko cioè ‘abitanti intorno’), erano liberi e godevano de diritti civili, ma non dei diritti politici. Non ave- vano quindi alcuna parte nel governo dello Stato; quantunque fossero tenuti a prestar servizio mili- tare in tempo di guerra; potevano però posse- dere beni fondiari, ma dovevano pagare per essi un dato affitto allo Stato, ed esercitavano anche libe

Antichità pubbliche 9I

è e nie

ramente qualche industria, e più tardi pure il commercio, ciò che agli Spartiati era vietato. Il profitto che ne ricavavano era tutto per loro, co- sicchè sotto il rispetto economico Ja condizione dei Perieci poteva considerarsi come pienamente so- disfacente.

Gli Spartiati e i Perieci erano anche compresi insieme sotto il nome di Laconi o di Lacedemonii {Adn@ves, Likones, Aanedayorot, Lakedaimboniot).

c) Schiavi (d0d4o0t, douloi) invece furono fatti tutti gli Achei che opposero più fiera resistenza all’invasione dorica, e i discendenti di questi fu- rono detti Iloti (XA@teg, Zes/ofes) nome che, se- condo una tradizione deriverebbe da Helos, la città più ostinata nella resistenza, ma che, più probabil- mente connesso col verbo &Zioxopat, haliskomai es- sere preso’, vorrebbe dire ‘prigionieri’ o ‘assog- gettati’. Del resto anche in Argo e in Sicione gli antichi Achei furono, in modo analogo, ridotti in servità dai Dori invasori.

GI Iloti erano veri servi della gleba, annessi cioè alla terra, ch’essi lavoravano e fecondavano col loro sudore, a tutto profitto dei padroni, che n’erano i proprietari. Solo una piccola parte del frutto dei campi era concessa agl’ Iloti, tanto perchè potes- sero vivere; tutto il resto spettava al padrone. Ciò nullameno, sia per generosità di questo, sia per la propria parsimonia, s'ebbero non di rado nnche Iloti che riuscirono col loro risparmio ad ac- cumulare qualche peculio e poterono in tal modo

92 Parte seconda

riscattarsi in libertà e assurgere alla condizione giuridica e civile dei Perieci, benchè con questi non si confondessero mai completamente. L’ Ilota apparteneva come proprietà assoluta al padrone della terra, così come v’apparteneva il bestiame che vi pascolava. V’erano però Iloti di proprietà dello Stato, perchè annessi ai terreni di questo, ed erano ‘detti schiavi pubblici (Onuboror dodioz, demosioi douloi, ovvero dovAot Tod xovoù, douli tou kotnot ‘del comune’), e ve n'erano di privati, appartenenti cioè a singoli Spartiati; ma questi non. potevano venderli liberarli, comecchessia staccarli dalle terre in cui vivevano. Solo lo Stato poteva concedere la libertà a uno schiavo. In guerra gl’Iloti seguivano, quali servi, i loro padroni; e quelli appartenenti allo Stato formavano anche, riuniti insieme, un corpo speciale di truppe leggere, Quando Sparta si creò una flotta, gl’ Iloti costitui rono la ciurma delle navi. Per atti di valore com= piuti in guerra o per servigi notevoli resi allo Stato gl’ Iloti venivano non di rado dichiarati liberi, questi erano designati col nome di neodamodi ? (veodaucders, neodamodeis).

GI’ Iloti nella Laconia superavano assai per nu- mero le altre due classi della popolazione prese in- sieme; e più numerosi degli Spartiati erano anche i Perieci, Cosicchè la classe dominatrice era in realtà una piccola minoranza, che s'’imponeva alle altre con l’autorità e soprattutto con la forza. Ma i Perieci in generale si adattarono facilmente alla

Antichità pubbliche 93

loro inferiorità politica, e si mostrarono in com- plesso contenti delle condizioni di vita in cui erano stati posti dai conquistatori, mai si ribella- rono apertamente agli Spartiati. Non così gl’ Iloti. Questi insorsero più volte fieramente contro i loro padroni, per scuoterne il giogo, uscire dall’intolle- rabile condizione di vita che era loro fatta e riven- dlicarsi in libertà. Furono vani tentativi, che non «bbero altro effetto che di rendere assai più dura la loro schiavitù e metterli sempre in maggiore tospetto presso i loro dominatori. Questi difatti non si tennero mai tranquilli sul conto loro; e quando temevano che il loro numero andasse troppo crescendo e fosse di minaccia o di pericolo alla licurezza dello Stato, davano loro la caccia come i belve, e con modi iniqui e crudeli ne menavano itrage.

è? 27. DIVISIONE DELLE TERRE. Quando i Dori occuparono la Laconia, si appropriarono il suolo migliore conquistato, e lo divisero tra loro in patti possibilmente eguali. Ciò avvenne soprattutto nella (ertile e ampia valle dell’Eurota. Scelto quivi dap- prima il terreno, che doveva essere assegnato come proprietà ai re (il tg&uevog, fémenos) e quello che \lava intorno ai tempî e che era considerato come incro e come proprietà degli Dei, divisero il resto In 6.000 0, secondo altri, in 9.000 porzioni uguali, © in modo che ognuna di esse bastasse pel man- \enimento di una famiglia. Queste porzioni vennero \liegnate in proprietà ad altrettante famiglie di

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Spartiati, e furono dette ‘clari’ (xA@oot, 4/aroi) cioè porzioni toccate in sorte. I clari non potevano dal proprietario essere venduti, venduti o allon: tanati potevano essere gl’ Iloti che li coltivavano e formavano parte integrante del fondo stesso. la famiglia veniva ad estinguersi, la parte che lk era stata assegnata ritornava proprietà dello Stato.

Questa spartizione delle terre, che avrebbe do vuto rendere tutti eguali economicamente tra lori i cittadini Spartiati, non impedì, come è ben na turale, che col tempo si formassero molte e grandi disuguaglianze, che quivi pure, come ovunque, la ricchezza si venisse via via distribuendo in modo di: suguale, e che accanto ai ricchi ci fossero i poveri Ciò avveniva sia perchè non era, a quanto par&; vietato di dividere le terre ereditarie tra i figliuoli di una medesima famiglia, e il numero di questi naturalmente variava dall'una all’altra, sia perchè era lecito ad ogni famiglia acquistare e possedere, oltre. alla parte assegnata dallo Stato, altre terre e beni stabili comperati, sia perchè accanto a fa miglie bene ordinate e parsimoniose altre ve n'e: rano spenderecce e poco curanti delle cose loro sia infine per tutte quelle altre cause che concor: rono sempre e ovunque a far che gli uomi a siano disuguali tra loro, per vigoria, per attitudine; per operosità, per virtù e per vizi.

Matrimoni legittimi non erano in Sparta che quelli conchiusi fra Spartiati. Ma anche dei fan: ciulli che solo dal lato paterno appartenessero alli

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stirpe degli Spartiati o fossero nati da genitori La- coni, da genitori cioè che non possedevano la pie- nezza dei diritti politici e iragazzi in questo se- condo caso eran chiamati udVares, mothates, O nd @ves, mothones potevano essere educati alla maniera degli Spartiati. E alcuni di questi diven- tarono uomini insigni; furono infatti “motaci’ Lisan- dro, il vincitore di Atene, e Gilippo, il difensore di Siracusa.

% 28. LEGISLAZIONE DI LICURGO. Le difficoltà della conquista, la lunga e varia resistenza e oppo- sizione delle genti che prima occupavano il paese, il conflitto d’ interessi nel dare assetto al nuovo regno furono cause di molti e gravi turbamenti. tra | Dori della Laconia nei primi secoli dell’ occu- pazione delle nuove terre. A comporre le faccende disordinate del regno intervenne, secondo narra la leggenda, l’opera provvida e sapiente di Licurgo.

Vissuto verso la metà del secolo IX a. C., quale tutore del re minorenne Carilao, Licurgo diede so- lido assetto al governo di Sparta, con una nuova costituzione politica e con savie rigide leggi. La storia e la leggenda s'intrecciano talmente intorno alla persona di lui, che assai difficile o impossibile riesce oggidì a noi sceverare con sicurezza ciò che è favola da ciò che è schietta verità, Ma il negare insolutamente che sia mai esistito un Licurgo riordi- rintore dello Stato spartano, e fare di lui un sem- plice simbolo, un personaggio del tutto leggendario, è ipercriticismo esagerato, dal quale la critica sto-

I

Parte seconda

rica seria e ponderata deve astenersi. Certo noi tutte le istituzioni e le leggi che a lui gli antich scrittori attribuirono saranno propriamente sue; cune dovranno ritenersi anteriori; altre posterioi all’epoca in cui suol porsi la sua vita; ma è certt che l'aspetto generale del governo di Sparta molti caratteri d'una creazione premeditata, perso nale, individuale, imposta sia coll’autorità sia con | forza, al popolo intero, non da questo lentamenti immaginata e creata. % 29. Il governo in Sparta era ripartito fra. re, gli ‘efori’, la gerusia’ o senato e l’ apella o assemblea del popolo, ossia dei cittadini. a) I re riunivano in sè, come dappertutto if Grecia, l’autorità politica, giudiziaria, militare e re ligiosa. Essi celebravano i pubblici sacrifizi delli Stato, e coprivano poi due speciali sacerdozi, quelli di Zeus Uranio e di Zeus Lacedemonio; comunica vano con l’oracolo di Delfo per mezzo di due rappre sentanti chiamati ‘Pitii’ (Id, Py4i0t), liberamenti scelti da loro. Prima di uscire in campo alla testi dell'esercito sacrificavano a Zeus duce (Zeùs dy7)70g Zeus haghetor); prima di uscire dai confini delli Stato celebravano un sacrifizio a Zeus e ad Atena e di fronte al nemico prima della battaglia un altra sacrifizio facevano ad Artemide ‘agrotera’ (dy00 téou, agrotera), vale a dire campestre. I re da principio avevano il diritto di dichiarare la guerra, quando loro paresse, contro altri Stati. ma già al tempo delle guerre persiane tale diritti

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era passato al collegio degli efori. Anche l'autorità | assoluta che avevano da principio nell'esercito, quali

capi, perchè potessero condurlo ovunque volessero

oltre i confini dello Stato, venne in seguito molto

limitata dalla vigilanza che su loro esercitavano gli

efori; due di questi accompagnavano sempre il re | al campo, più che per giovarlo dei loro consigli,

per vigilare sulla sua condotta e per accusarlo poi eventualmente dinanzi al senato, se mai avesse

commesso qualche errore. Nei primi tempi tutti e

due i re comandavano insieme l’esercito, e tutti e

due uscivano con esso in campo. Ma dopo il 506,

quando la campagna contro Atene andò fallita, se-

gnatamente per la discordia scoppiata fra i due re

Cleomene e Demarato, venne deciso che in tempo

di guerra il supremo comando dell’ esercito spet-

tasse ad uno solo dei due re, e che l’altro dovesse

rimanere a Sparta.

L’autorità giudiziaria dei re era limitata alle cause riguardanti la famiglia, quali, ad esempio, le que- stioni relative ai matrimoni, alle eredità, alle ado- zioni e simili. Cadevano anche sotto la loro giu- risdizione le cause relative alle pubbliche vie.

L'autorità politica dei re, oltre che dalle leggi, alle quali giuravano, salendo al trono, d'essere sem- pre ossequienti, era limitata da quelle degli efori, i quali erano a mano a mano venuti acquistando una verande ingerenza in tutte le faccende dello Stato.

AI re succedeva non il figlio primogenito asso- lutamente, ma il figliuolo che primo gli fosse nato

7 INAMA.

è _____rP_____oEÈ

98 Parte seconda

dopo che era stato assunto al trono. In mancanza di questo, gli altri figliuoli in ordine d’età o gli agnati più prossimi.

I re, oltre alle terre loro assegnate dallo Stato, come beni della corona, potevano possederne altre molte, come loro beni privati. A loro poi inoltre spettava la parte migliore delle vittime uccise nei pubblici sacrifizi dello Stato, come pure la parte maggiore delle prede di guerra.

Il vitto ai re era fornito a pubbliche spese; nelle grandi feste religiose e civili, come pure in gene- rale in ogni altra pubblica solennità, i re occupa- vano il primo posto d'onore (sooedoia, proedria). All’apparire del re, tutti dovevano levarsi in piedi, ad eccezione degli efori.

5) Gli efori (&pooot, épbhoroi) erano cinque, ve- nivano scelti, non sappiamo in qual modo, fra gli Spartiati e duravano in carica un anno, Fu attri- buita a Licurgo l’ istituzione degli efori; ma l’ori- gine loro è affatto ignota e sono forse più antichi. Pare che dapprima fossero rappresentanti del popolo o degli Spartiati tutti di fronte ai re, e che le loro attribuzioni fossero limitate a una specie di vigi- lanza su quanto i re facessero e dovessero fare. Il loro nome stesso significa ispettori. In seguito l’in- gerenza loro in tutte le faccende dello Stato andò sempre più aumentando, le loro attribuzioni si allar- garono sempre più, a scapito di quelle dei re; ma non è chiaro come e perchè ciò avvenisse. Non v’ha dubbio che ad accrescere l’autorità degli efori

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contribuirono le discordie frequenti tra l’uno e l’al- tro re, cosicchè essendo in molti casi paralizzata l’o- pera loro, subentrava necessariamente quella degli efori,

La vigilanza di questi si esercitava, oltrechè sopra i re, su tutti quanti gl’impiegati dello Stato, i quali, finito che fosse il loro ufficio (ed era quasi sempre annuale o temporaneo), dovevano renderne conto ad essi; si estendeva quindi sull’applicazione di tutte le leggi, e anche sui costumi e la condotta pri- vata dei cittadini. Essi potevano convocare, di loro propria autorità, l'assemblea del popolo e presie- derla; mandavano ambasciatori all’estero e riceve- vano in udienza quelli che gli Stati esteri man- dassero a Sparta; decretavano spedizioni militari in tempo di guerra e sceglievano chi dovesse ca- pitanarle. L'autorità loro crebbe così, che in qual- che momento della storia spartana, fu superiore a quella degli stessi re, poichè ad essi spettava pure il diritto di accusare il re innanzi al senato, quando lo credessero colpevole o inetto nell'adempimento del suo ufficio,

Finito l’anno della loro carica gli efori dovevano rendere conto del proprio operato agli efori eletti per l’anno successivo.

Dal nome del primo dei cinque efori, detto perciò ‘eponimo’, era designato l’anno in corso. Gli efori avevano la loro sede nel pubblico mercato, nell’a- vora di Sparta, in un edifizio apposito (tò T©y Epdocov doyetov, fo ton ephoron archeion palazzo

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degli efori’), nel quale era ,anche fornito loro il vitto giornaliero a spese dello Stato. c) La gerusia (yeoovoia, ghRerousia, laconico we- govtia, gherontia), ossia senato, era composta di ventotto cittadini, scelti fra gli Spartiati che avessero compiuto, per lo meno, cinquant'anni d’età. Del senato facevano parte anche i due re, cosicchè il numero compiuto era di trenta senatori. Venivano eletti dall'assemblea popolare tra le famiglie più ragguardevoli della città e rimanevano in carica per tutta la vita. Il senato, insieme coi re e con gli efori, costituiva î la suprema autorità dello Stato, la quale ne diri- geva tutta l’ amministrazione e su tutto vigilava: 5 sull’esatta applicazione delle leggi, sugli usi e i di costumi dei cittadini. Ogni proposta concernente 1” gli affari dello Stato, prima d’essere sottoposta " Hi all'approvazione dell’assemblea popolare, veniva di- N scussa in senato. Per i delitti politici, o in cause criminali d’eccezionale gravità, il senato fungeva da autorità giudiziaria. Quando eventualmente gli MO efori movessero accuse contro i re, il processo era INif=; fatto dal senato e a questo spettava il pronunciare iI la sentenza. d) L’apella (@mé4%0, apella, anche ueydAat dart84- Zar, megalai, cioè grandi, apellai; in laconico dsre- gi: Zago, apellazo, equivaleva all’attico éxxAy70d$0, | ekklesiazo ‘tenere un’adunanza popolare ’) o assem- blea del popolo comprendeva tutti gli Spartiati, che avessero superato i trent'anni d’età. Era presieduta

Antichità pubbliche IOI

dai re, ovvero dagli efori. Veniva radunata, di re- gola, ogni mese, nel plenilunio. Essa approvava 0 respingeva le proposte che le venissero presentate dai re, dagli efori o dal senato, manifestando il proprio parere con grida di approvazione o di di- sapprovazione (f0a rai y)p@, bod kai ou psepho «con la voce e non col voto», come dice Tuci- dide I 87), ma non poteva discuterle mo- dificarle.

Fino al V secolo a. C. l'assemblea del popolo decideva della guerra e della pace, eleggeva i geronti’ (yéoovtes, ghérontes) ossia i senatori, no- minava gli efori e tutti in generale i pubblici fun- zionari o impiegati dello Stato. Ma in seguito parecchie di queste attribuzioni le furono tolte o usurpate dagli efori. Dopo il 506, quando fu de- ciso che uno solo dei due re dovesse capitanare l’esercito in guerra, toccava all'assemblea d’indi- care a quale dei due l’onorifico ufficio spettasse. Essa risolveva anche col suo voto tutte le even- tuali questioni che sorgessero intorno alla succes- sione del trono.

? 30. EpUCAZIONE E costumi. Gli Spartiati, per il modo stesso con cui erano venuti in possesso della Laconia, non potevano conservare il loro pre- dominio e la loro posizione privilegiata di domi- natori di fronte ai Perieci e agli Iloti, tanto più numerosi di loro, se non con la forza e con la vio- lenza: a questa quindi si attennero, Essi si con- servarono sempre nella Laconia quasi come un eser-

102 Parte seconda

cito accampato in mezzo ad un territorio nemico. L’educazione della gioventù perciò non ad altro mirava che a disciplinare militarmente tutti i citta- dini; questi dovevano dedicare allo Stato tutta l'opera loro e la loro vita; erano parte dello Stato e non esistevano che per esso.

Allo Stato quindi apparteneva di diritto il prov- vedere all'educazione dei giovani Spartiati; e l’edu- cazione era dura, rigorosa, severa. Il bambino, appena, nato, veniva presentato sopra uno scudo ai seniori della tribù a cui apparteneva. Se era gra- cile di complessione 0 difettoso, cosicchè non desse speranza di poter crescere sano e vigoroso, veniva esposto o gittato in un burrone ("Asrodéta, Apothetai) del monte Taigeto a morirvi di fame o a restare pasto alle belve.

Fino ai sette anni i figlioli erano lasciati alle cure della madre; dopo i sette anni affidati al maestro o ‘pedonomo’ (studovoos, paidonomos), affinchè li educasse secondo le rigide norme tradi- zionali.

I fanciulli venivano perciò divisi in schiere, dette ‘ile’ (WAat, ilai), secondo l’età. Più schiere riunite formavano una squadra, ovvero un’ ‘agela’ (dveda, aghela). Ciascuna schiera e ciascuna squadra aveva a capo giovanetti scelti fra quelli che fossero al quanto più maturi d’età, e questi capi erano detti rispettivamente ‘ilarchi’ e ‘agelarchi’ (tAaoyot, ilar= choi, àyéAaggo, aghélarchoi). Per vestito indossa- vano un semplice e rozzo chitone, eguale d'estate

Antichità pubbliche 103

e d'inverno; per letto avevano un duro giaciglio di foglie secche; parco assai e semplice era il cibo. Tutto mirava a indurire il corpo alle fatiche, assue- farlo a privazioni di ogni specie e renderlo insensi- bile al dolore fisico; perciò fustigazioni crudeli e tormenti. Bagni giornalieri nel fiume Eurota, lunghe marce e faticose, corse affannose per piani e per monti dovevano dare robustezza e forza al corpo, sicchè fosse atto a sopportare senza danno tutti i disagi, tutte le aspre fatiche della guerra. Come forte e robusto il corpo, così impavido innanzi ad ogni rischio e pericolo doveva essere l'animo del cittadino spartano.

Gli esercizi ginnastici che facevano parte dell’e- ducazione della gioventù in Sparta erano quelli stessi ch’erano in uso in Atene e nelle altre città greche in genere : la corsa, il getto del disco e del giavellotto, il salto, la lotta, esclusi il pancrazio il pugilato, esercizi più da spettacoli che educativi. Ma la ginnastica in Sparta aveva una grande pre- ponderanza su ogni altro insegnamento, ed era esercitata con maggiore severità e durezza che al trove. Del pari la danza (00779700), orchestiké) assu- meva in Sparta il carattere di un esercizio guer- resco, poichè era fatta dai giovanetti in armi, con movimenti energici e violenti, con maneggio misu- rato di lance e di spade. Anche le fanciulle venivano esercitate alla corsa, al salto, alla danza. Sane, ro- buste, vigorose dovevano crescere le future madri dei giovani Spartiati.

104 Parte seconda

L’ educazione intellettuale e letteraria era in- vece trascurata in Sparta, ove facciasi il confronto con Atene. L’istruzione spingevasi poco più in del leggere, dello scrivere, del far di conti. Ma a ingentilire l'animo, a rendere agile lo spirito gio- vavano il canto corale e la musica; e questi erano insegnati con molta cura anche in Sparta, e nelle loro feste religiose e civili tenevano grandissima parte. Ma anche la musica e il canto avevano im- pronta più seria e severa in Sparta che in Atene, e non di rado erano associati agli esercizi ginna- stici, rendendo questi più ritmici e misurati.

? 31. Sissirie. Scopo eminentemente educa- tivo o politico insieme aveva in Sparta l’ uso dei pranzi in comune, ‘sissitie’ o ‘fiditie’ (ovocitia, sys- sitia, quditia, phiditia) come erano detti, ai quali dovevano prender parte ogni giorno tutti gli Spar- tiati adulti; al vitto dovevano contribuire del pro- prio, portando mensilmente un ‘medimno’ d’orzo (litri 52,7), otto misure di vino (litri 39,5 circa), cinque ‘mine’ di formaggio (circa 3 kg.), e due mine e mezzo di fichi. Inoltre dovevano dare in denaro una piccola somma ogni mese. Il non pren- dere parte a questi pranzi comuni era considerato come riprovevole negligenza e colpa.

Non v'era che un pasto al giorno, a questo mancava mai la zuppa nera o brodo nero (aiuatia, haimatia, uéZag &wuds, melas zombs), rozzo mine- strone, rinomato in tutta la Grecia, Ad ogni tavola sedevano cinquanta commensali; e poichè di re-

Antichità pubbliche 105

gola erano sempre i medesimi, così nascevano na- turalmente rapporti d'amicizia e vincoli di camera- tismo militare, che duravano anche in seguito e si rendevano più intimi nell’esercito in campo.

Quando un cittadino, per le sue ristrette condi- zioni economiche, non potesse più eventualmente contribuire ciò che era prescritto per la mensa co- mune, quindi prender più parte al pubblico pranzo, egli perdeva i diritti di cittadinanza, li ricuperava se non dopochè ritornava a contribuirvi e a parteciparvi.

In questi banchetti comuni era naturale che i discorsi riguardassero più frequentemente le fac- cende politiche della città e che vi si discutessero gl’interessi più vitali dello Stato, talchè accadeva che si venisse così formando un’opinione pubblica e che tutti i cittadini acquistassero una conoscenza più piena e sicura degl’interessi dello Stato e un più maturo giudizio intorno ad essi, mentre nello stesso tempo una cultura uniforme si diffondeva in tutta la cittadinanza.

% 32. AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA. Nelle cause e nei processi riguardanti la famiglia, come pure in quelle relative alle pubbliche vie, il giudizio e la decisione spettava ai re; le questioni invece tra privati e le cause riguardanti la condotta dei pubblici impiegati erano trattate e decise dagli efori. Ma esse erano anche non di rado rimesse al giu- «lizio di arbitri (dcacmytai, diaitetéi), scelti dalle parti. | processi per i crimini più gravi e i processi po-

106 Parte seconda

litici o quegli intentati dagli efori contro i re erano di spettanza del senato.

Le cause di carattere pubblico potevano essere promosse dai magistrati, quelle di carattere privato solamente dalla parte lesa.

Gli avversari trattavano direttamente la propria causa innanzi ai giudici, esponendo ognuno da sè, senza bisogno di avvocati patrocinatori, le proprie ragioni e proponendo essi stessi le pene a cui cre- devano dovesse essere condannato l'avversario. La decisione spettava naturalmente al giudice, il quale fissava anche le pene. Queste consistevano in multe, in confische di beni, nella perdita dei diritti poli- tici, nell’esilio, nella morte. La condanna a morte veniva eseguita in carcere col capestro, il cadavere del giustiziato gittato in un profondo burrone, detto Caiada Kawdag, ho Kaiadas), ch'era presso la città, dove gl’infelici condannati erano talvolta pre- cipitati anche vivi.

? 33. L’esERCITO. Sparta, come ogni altro Stato. greco, non aveva esercito permanente. Nondimeno. può dirsi che tutti gli Spartiati costituissero un vero e proprio esercito stabile; giacchè l’educazione, i costumi, le giornaliere consuetudini e occupazioni avevano carattere eminentemente militare e non ad altro tendevano che a far che tutti fossero atti. al maneggio delle armi e pronti ad impugnarle, se. mai scoppiasse improvvisa una guerra esterna 0. un'insurrezione interna degl’ Iloti, AI servizio militare erano obbligati gli Spartiati.

Antichità pubbliche 107

e î Perieci dai venti ai sessant'anni, ed entravano nell'esercito presso a poco in numero eguale gli Î uni e gli altri. Ma alle spedizioni militari al di fuori de confini dello Stato non prendevano parte di regola che soldati inferiori ai quarant'anni.

L'esercito era formato da sei corpi principali, detti ‘more’ (udpat, morai), comandato ciascuno da un polemarco. I sei polemarchi costituivano una specie di consiglio di guerra intorno al re, che era il capo supremo. Se il re non comandava egli stesso in persona l’esercito intero, era sostituito da un ge- nerale in capo, da uno stratego.

In ogni mora militavano insieme Spartiati e Pe- rieci, nelle proporzioni presso a poco di un terzo i primi, di due terzi i secondi. Le more erano ora più, ora meno numerose, ma può ritenersi che in media ognuna contasse 2300 opliti. Questi erano armati, suppergiù, allo stesso modo degli opliti ateniesi, con elmo, corazza, scudo, lunga lancia e spada, e al disotto della corazza vestivano un chi- tone rosso scuro, detto perciò gowxis, fhoinikis. Inoltre avevano al loro seguito degl’ Iloti, ch'e nelle marce portavano loro lo scudo (braomotai, Aypa- spistéi), assai pesante e grande, e altri che porta- vano loro la lancia (dogvpsoot, doryphoroi “‘ porta- tori di lancia’). Gl’Iloti formavano anche nell’e- sercito spartano corpi di truppe leggere.

La mora era divisa in lochi (Adyot, lockoî), piccoli battaglioni, per lo più quattro per ogni mora, coman- dati ciascuno da un ‘locago’ (Aogayds, lochagds).

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108 Parte seconda n OO

Ogni loco contava 500 opliti, compagnie di cinquanta uomini, dette pentecostie” (mevtenootIzg, dentekostyes), e ogni compagnia in enomotie (£vouotiat, enomotiai, gruppo di sol- dati &v@uotor, enbmotoi ‘legati da giuramento’) co- mandate ciascuna da un enomotarco? (E voudtaggos, enombtarchos). La musica militare era formata da sonatori, di flauti o pifferi,

La cavalleria presso gli Spartani, come presso. gli Ateniesi, ebbe poca importanza. Venne isti- tuita relativamente tardi, dopo il 424 a. C., con un corpo di quattrocento cavalieri, scelti tra il fiore della gioventù Spartiata, come guardia d’ onore al re. Da questi venivano presi gli agatoerghi ? (dyadosgvoi, agathoergdi ‘benefici ’), i cinque ca- valieri anziani, scelti annualmente per servire come ambasciatori dello Stato. Nelle battaglie gli Spar- tani calcolavano assai più sulla cavalleria degli alleati che sulla propria,

Anche la flotta non ebbe mai in Sparta grande sviluppo grande importanza. Giacchè nelle guer- re, sia contro la Persia sia contro Atene, Sparta. Si valse sempre in mare della flotta dei propri al-. leati, ovvero di flotte mercenarie allestite col de- naro avuto ad imprestito dalla Persia, quando fu in guerra con Atene. Il porto di mare di Sparta era Gitio (Tvdstor, Gytheion) sul golfo Laconico, Mentre gli Spartani nelle guerre persiane misero in campo ben ro mila Opliti e 4o mila Iloti, essi non parteciparono alla battaglia dell’ Artemisio che

Antichità pubbliche 109

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con sole 10 navi proprie, e con 16 alla battaglia di Salamina. Nel 413 a. C., al ripigliarsi della guerra del Peloponneso, tutta itea la flotta spartana non contava che 25 navi, e fu questo il naviglio più grande che Sparta abbia mai avuto.

Dal principio della guerra del Peloponneso in poi anche gli Spartani, come gli Ateniesi, comin- ciarono ad assoldare truppe mercenarie.

II0O Parte seconda

CRETA.

% 34. L'isola di Creta, che fu probabilmente, come s'è detto, il centro principale dell’antichissima civiltà mediterranea, posta tra la penisola greca, l'Asia e l'Africa, quasi ponte di passaggio dall'uno all'altro continente, era naturale che servisse di scalo a tutto il commercio del mare Egeo, e al mo- vimento delle molte genti diverse, che in quei se- coli remoti se ne contrastavano il possesso.

Quali genti allora l’abitassero non sappiamo; senza dubbio dovevano essere molto numerose e varie, se Omero potè dire (04. XIX 174) che vi erano novanta o anche (// II 649) cento città e vi si parlavano lingue diverse. Assai per tempo, certo subito dopo l'occupazione del Peloponneso per opera dei Dori, vi vennero dall’Argolide e dalla Laconia genti doriche, e ad esse verosimilmente è dovuto se l’isola fu un po’ alla volta tutta intera elle- nizzata. I Dori presero stanza probabilmente dap- prima sul litorale dell’isola, poi via via occuparono parecchie città, forse già prima popolose e fiorenti, quali Cidonia, Cnosso, Litto, Gortina, Festo e altre.

La leggenda, o tradizione storica, attribuiva al re Minosse, residente in Cnosso, la fondazione

Antichità pubbliche III

della potenza marittima di Creta e la sua costitu- zione politica,

Comunque sia, le istituzioni, gli usi e i costumi dei Dori dell’isola rassomigliavano assai a quelli dei Dori della Laconia, onde gli storici greci riten- nero che da Creta appunto Licurgo avesse preso o imitato la costituzione e le leggi che egli diede a Sparta. Ma è da credere invece che i Dori, pas- sando dal Peloponneso nell'isola, vi si mantenes- sero fedeli alle proprie tradizioni.

? 35. Anche in Creta la popolazione dorica era divisa nelle solite tre tribù, suddivisa poi ciascuna in fratrie e queste alla loro volta in genti. Come nel Peloponneso, così in Creta, i Dori dovettero assoggettarsi con la forza le popolazioni, greche o no, che prima di loro l'abitavano, e con la forza mantenerle obbedienti. Troviamo per ciò gli abi- tanti dell’isola divisi in tre classi, presso a poco come nella Laconia:

a) La classe predominante era costituita dai Dori, discendenti dai conquistatori, e questi vive- vano accentrati nelle città. Essi si erano appro- priata la parte migliore del suolo e l’avevano di- visa in lotti o ‘clari’ (xZagor o xA7goi, clarot, cleroî), presso a poso eguali, assegnandoli poi alle singole famiglie doriche che li facevano lavorare dai servi.

5) Assai più numerose dei Dori erano le genti da loro ridotte in soggezione e col tempo del tutto ellenizzate. Questi sudditi (d7)x001, hypékooi), come

112 Parte seconda

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i Perieci nella Laconia, abitavano per lo più nelle campagne, in piccoli villaggi, erano liberi, ma non godevano i diritti politici, avevano parte nel- l'’amministrazione dello Stato. Possedevano bensì terreni, che lavoravano da sè, ma esercitavano a preferenza l'industria e il commercio, pagando un determinato tributo ai Dori. Un'altra parte degli antichi abitanti invece era stata ridotta in servitù, come gl’ Iloti, e questi, denominati ‘mnoti’ (uvot ta, muottai o uv@ta, mnotai servi’), erano veri schiavi della gleba, annessi al terreno che lavora- vano 0 per conto dei padroni o per conto dello Stato, e solo una minima parte dei frutti era loro accordata, quanta cioè bastava perchè potessero vivere. La loro condizione era tuttavia un po’ mi- gliore di quella degl’ Iloti, in quanto potevano pos- sedere delle terre, contrarre tra loro legittimi matri- moni, formarsi così una famiglia propria e arrivare anche con la parsimonia e col lavoro ad una certa agiatezza. Era però vietato loro l’uso delle armi, nonchè l’accesso ai ginnasi.

Accanto a questi servi della gleba non mancavano altri schiavi (dodAor, douloi), ma in generale erano stranieri comperati fuori dell’isola.

% 36. EDUCAZIONE E COSTUMI. Le stesse ra- gioni, che determinarono i Dori della Laconia a dare all'educazione della gioventù un rude e vigo- roso carattere militare, esistevano per i Dori del. l'isola di Creta, giacchè quivi pure essi dovevano conservare la loro preminenza politica sopra le

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popolazioni indigene sottomesse con l’autorità del nome o con la forza.

I giovanetti anche in Creta erano distribuiti in schiere, dette parimenti ‘agelai’ (dyé4at, aghelat), e sottoposti a una educazione suppergiù simile a quella degli Spartiati, mentre gli adulti formavano delle ‘eterie’ (étauoeta,, Retaireiai), ossia dei cir- coli di carattere politico-militare, e tutti poi erano tenuti ai pubblici pranzi in comune (avdgeta, an dreia), somiglianti a quelli di Sparta, con la sola differenza che a Creta le spese ricadevano intera- mente sullo Stato.

% 37. Il governo era strettamente aristocratico. Non v’erano re; ma le attribuzioni dei re e degli efori erano concentrate su dieci magistrati, detti cosmi’ (xoouol, kosmoi), ossia ordinatori, scelti tra le famiglie di schietta origine dorica, più antiche e più nobili, i quali rimanevano in carica un anno. Un Consiglio di vecchi, corrispondente alla gerusia di Sparta, aveva il compito di aiutare coi propri suggerimenti i cosmi nell’ amministrazione dello Stato, e nello stesso tempo vigilare sull’opera loro e giudicarla, quando essi deponevano l’ufficio.

Questo Consiglio era costituito da tutti i cosmi che d’anno in anno uscivano di carica, cosicchè ben potevasi presumere che în esso si raccogliesse quanto di meglio lo Stato offriva di persone auto- revoli, oneste e pratiche della trattazione degli affari.

Il popolo, vale a dire i cittadini di schietta ori=

8 Inama.

II4 Parte seconda

gine dorica, era convocato in assemblea generale periodicamente come in Sparta, per approvare per respingere semplicemente, non già per discu tere o per modificare, le proposte che gli venissera presentate sia dai cosmi sia dal senato.

In complesso Creta riproduceva, con lievi modi: ficazioni, la costituzione politica, gli usi e i co stumi dei Dori del Peloponneso, non altro essendc realmente che una colonia di questi nell’ isola.

Antichità pubbliche 115

LE COLONIE.

$ 38. Se per colonie intendiamo delle città fon- date in seguito a un movimento d’espansione anche involontaria d'un popolo al di fuori dei naturali confini del paese da esso stabilmente occupato denominato, potremo dire che i Greci mandassero colonie fuori della loro penisola fino da tempi an- tichissimi, forse ancor prima del secolo X a. È Giacchè l'immigrazione dei Dori e la loro discesa dalle regioni settentrionali verso la parte centrale della penisola, e poi l'occupazione del Pelopon- neso produssero non solo uno spostamento, entro i confini stessi della Grecia, delle genti elleniche che prima dei Dori vi abitavano, ma ne costrin- sero anche una parte a cercare nuove dimore nelle isole del Mare Egeo e sulle coste dell’Asia Minore. Allora appunto, probabilmente, gli Eoli dalle spiagge della Tessaglia, e gli Ioni da quelle della Grecia centrale e del Peloponneso passarono ad occupare le isole e le coste dell’Asia anteriore, che furono poi, nei secoli successivi, designate col loro nome. Più tardi anche i Dori ne seguirono l'esempio, e dopochè ebbero preso possesso del l'eloponneso, invasero le isole più meridionali del-

116 Parte seconda

l’Egeo, quali Tera e Creta, e le coste più vicine dell’Asia Minore.

Ma questa antichissima espansione delle genti; greche non suole propriamente considerarsi come. una vera colonizzazione, perchè è probabile sia. avvenuta quasi inconsciamente, per necessità di eventi, senza piano e scopo prestabilito. D’al-4 tronde nulla di preciso e di sicuro noi sappiamo) sul modo com’essa si effettuò e sulle cause che la produssero.

Vere colonie (dsromiar, apoikiai) invece, nel senso proprio della parola, furono quelle che deliberata- mente mandarono i Greci fuori del loro paese, qualche secolo più tardi. Allora molte città greche vennero nella deliberazione di spedire parte della. propria popolazione a prendere possesso di al terre, e porvi la propria dimora, fondando così delle nuove città elleniche, in paese straniero. Spetta alla storia di ricercare ed esporre le cause e le conse» guenze di questa ricca e fiorente colonizzazio greca, che si svolse nei secoli VIII e VII a. C., e che occupò a mano a mano le isole e i con tinenti che attorniano la Grecia, creando come un’ orlatura di città elleniche, ricche, fiorenti, ope rose lungo le coste del Ponto Eusino e dell’Asia Minore ad oriente, lungo quelle dell’Italia meri dionale e della Sicilia ad occidente, nonchè sulle spiagge dell’Africa a mezzogiorno, con la città di Cirene.

? 39. Queste colonie, quando non erano la con

Antichità pubbliche 117

seguenza della violenta e subitanea secessione d’un partito politico vinto e cacciato dalla patria dal par- tito contrario vincitore, venivano fondate con forme costanti e quasi rituali.

Per lo più prima di mandar fuori una colonia la città chiedeva il consiglio di un oracolo, a pre- ferenza d’ogni altro dell’oracolo di Delfo, come quello che era circondato da maggiore venerazione e meglio informato sulle condizioni dei paesi stra- nieri, nei quali la colonia avrebbe dovuto dedursi. Avutane risposta favorevole, veniva eletto a fonda- tore, ‘ecista’ (olxotijs, oikistes), di essa con poteri assoluti, qualche cittadino molto autorevole ed esperto.

Nella nuova sede si sceglieva il luogo migliore per la città da fondare, e questa sorgeva con ordi- namenti amministrativi e forma di governo per lo più eguali o assai somiglianti a quelli della metro- poli. I coloni (domo, dpoikoi) portavano seco il fuoco del patrio Pritaneo e gli Dei patrii, ai quali subito nella nuova sede elevavano altari e tempî, e offrivano sacrifizi propiziatori, rinnovandone il culto, come un pio e sacro ricordo della patria lasciata. Un vincolo di pietà e di religione legava così per sempre la colonia con la città fondatrice, e le relazioni morali tra quella e questa erano af- fatto analoghe a quelle che in una famiglia corre- vano tra i figliuoli e i genitori, giacchè quale madre era considerata la città e quale amorevole figliuola ln colonia nata da essa. Ma politicamente le colonie

iO ie ian

118 Parte seconda

erano, di regola, affatto indipendenti dalla città che le aveva dedotte.

Se una colonia voleva fondarne una nuova, il che avvenne frequentemente, soleva chiedere il condottiero, l’ecista, alla città madre; a questa ri- correva pure, per aiuto, in caso di pericoli o di guerre contro altri, e sarebbe parso mancare ai do-; veri di pietà patria il rifiutarlo. Questi vincoli di affezione e di dipendenza morale tra le colonie la metropoli venivano naturalmente sempre più ral lentandosi con l'andare del tempo, e quanto più! la figlia riusciva a vivere di vita propria e a non sentire bisogno di appoggio o di aiuto dalla madre. Accadde anzi non di rado che, o per collisione d’in- teressi o per gelosie e ambizioni o per altre cause, i reciproci rapporti si raffreddassero o si facessero addirittura ostili e scoppiasse fra loro aperta guerra guerra considerata anche dagli antichi come empia e fratricida.

Le colonie venivano per lo più dedotte in paesi punto o poco abitati, per non incontrare opposi zioni da parte degl’indigeni. Alcune colonie da semplici stazioni commerciali crebbero fino a diven: tare fiorenti città, con vasto territorio d’attorno sog» getto e dipendente, così da poter costituire Stati po» tenti, quali furono, ad esempio, per non accennare alle numerose colonie dell'Asia e delle regioni circa; stanti, Cirene nell'Africa, Cuma, Pesto, Elea, Reg gio, Crotone, Sibari, Eraclea, Taranto, ecc. nel l’Italia meridionale, e Siracusa, Catania, Selinunté Gela, ecc. in Sicilia,

Antichità pubbliche 119

2 40. CLerUcHIE. Alquanto diverse dalle co- lonie propriamente dette erano le cleruchie’ (x47- qougiat, klerouchiai). Queste ebbero carattere poli- tico-militare, e furono proprie degli Ateniesi. Nei paesi per lo più conquistati in guerra, ma alle volte anche in territori acquistati con trattati speciali e col denaro, Atene mandava un certo numero dei suoi cittadini, scelti fra i più bisognosi e poveri, o fra i più desiderosi di avventure, per fondarvi una nuova città. Sceglieva di regola luoghi che fossero o strategicamente in posizione opportuna per la difesa dei propri possedimenti, ovvero adatti a ser- vire di scalo ai propri commerci. Il nuovo territorio veniva diviso in tanti lotti quanti erano i coloni scelti, e ad ognuno di questi ne veniva assegnato uno da coltivare, sufficente perchè potesse viverci con la propria famiglia. Questi lotti erano detti ‘cleri’ (xAf)001, Aleroi), perchè venivano assegnati ‘a sorte’ (xAî00g, Zleros), e di qui tali colonie pre- sero il proprio nome. Le terre così assegnate non erano di assoluta proprietà dei possessori, in quanto che non era loro lecito di venderle o cederle ad altri; esse rimanevano in perpetuo proprietà dello Stato.

I ‘cleruchi’ e i loro discendenti conservavano sempre la piena cittadinanza di Atene ed erano considerati come cittadini ateniesi distaccati e quasi temporaneamente assenti da Atene. In ciò appunto diversificavano le cleruchie dalle colonie solite. I cleruchi infatti potevano partecipare all'assemblea

120 Parte seconda

del popolo in Atene, far parte del tribunale degli eliasti e coprire ogni altro pubblico ufficio, benchè naturalmente assai di rado, per la lontananza loro, potessero profittare di tali diritti.

Le cleruchie, quasi fossero brani di Atene tra- sportati fuori dell’Attica, erano organizzate ammi- nistrativamente al modo stesso di Atene. I cleruchi erano soggetti ai medesimi obblighi di tutti gli altri Ateniesi residenti in città, e a tutte le leggi deliberate dal popolo.

Le cleruchie più antiche furono quelle di Sala- mina, tra il 570 e il 560 a. C., di Lemno e di Imbro sotto Pisistrato, e di Calcide nell’Eubea nel 506. In questa il territorio, che era stato conquistato in guerra, venne diviso in quattrocento lotti e asse- gnato a quattrocento cittadini poveri.

Le cleruchie, naturalmente numerose durante la potenza d’ Atene, diminuirono come questa de- cadde. Con la sconfitta d’ Egospotami Atene le perdè tutte; ma più tardi ne fondò ‘alcune altre. Dopo il 338 a. C. agli Ateniesi non rimasero che quelle di Imbro, di Lemno, di Sciro e di Salamina.

III,

ANTICHITÀ SACRE

TeMPî E ALTARI.

% 1. Il sentimento religioso d'ogni persona e d’ogni popolo si manifesta e si esplica innanzi tutto nella preghiera per invocare qualche favore dalla divinità, o per ringraziare di favori ricevuti, o per allontanare da danni e pericoli. Alla preghiera ti aggiungono offerte e sacrifizi per rendersi pro- pizio il Dio e per segno di devozione e di gratitu- dine. Ogni luogo può essere adatto per la preghiera e pel sacrifizio, perchè sia fra le pareti domestiche, sia a cielo aperto nei liberi campi il pensiero può elevarsi, supplichevole e riconoscente, all'Ente su- premo. Ma ben presto ogni popolo fissò certi luoghi particolari come meglio adatti di ogni altro per dare più viva espressione al proprio sentimento re- lirioso, e inalzò a’ suoi Dei altari e tempî, dove ognuno singolarmente, o tutto intero il popolo in- sjeme riunito, potesse rivolgere la parola e il pen- siero alla divinità e implorarne la grazia o il per- dono.

è 2, L'’aLraRE (f@uds, bomds). Ogni cumulo di térra o di pietre presso il quale s’inalzasse una preghiera agli Dei, o sul quale fosse sgozzata una vittima o posta un’offerta era per i Greci un altare.

124 Parte terza

La venerazione per questo era tanto maggiore quanto più antico o vecchio esso fosse, e mostrasse nelle molte ceneri accumulate e solidificate dal tempo i segni evidenti dei numerosi sacrifizi che v’erano stati celebrati. Semplici e rozzi, costruiti con tronchi d’alberi, gli altari primitivi; ma col tempo e col progredire della civiltà e della cultura anche gli altari, in particolar modo quelli consa- crati alle divinità maggiori e celesti, diventarono più ricchi e grandiosi, e soprattutto più artistici, Per lo più erano di marmo, di forma quadrata o rotonda, con fregi all’intorno finamente scolpiti, raffiguranti fiori e ghirlande, o figure sacre’ e sim- boliche, o teste o corna d’arieti, di buoi e di altre. specie di vittime, Splendidi furono alcuni e celebri per dimensioni e lavoro, corrispondenti alla dignità. del Dio cui erano consacrati e alla ricchezza delle. città o dei principi che li erigevano. L’altare di. Zeus (Giove) in Olimpia aveva la circonferenza di 125 piedi e l’altezza di 32; e il celebre altare di Pergamo, colle cui mirabili sculture e grandiosi fregi in marmo, rappresentanti in altorilievo la. Gigantomachia, scoperti negli ultimi anni del se- colo scorso, esso venne ricostruito nel museo di Berlino (Pergameion), aveva l’altezza di 12 metri: una costruzione addirittura colossale. L'altare si elevava per lo più sopra un largo e alto basamento; al quale si accedeva per mezzo di più gradini, Grande rinomanza godette l’altare di Apollo i Delo, costruito con corna di capre (xevdtwvos Paoydg}

Atrio del tempio della Vittoria senz'ali (Nixn &rt:60s) in Atene,

Antichità sacre 125

kerdtinos b.) vagamente intrecciate tra loro e con- nesse e conteste con tanta arte da essere annove- rato fra le sette meraviglie della Grecia.

Più modesti e più bassi di quelli dedicati agli Dei erano gli altari consacrati al culto degli eroi; si chiamavano * escare (goydoat, escharar) ossia fo- colari.

Agli Dei inferi non erano elevati altari; si sca- vavano invece semplici fosse, entro le quali si la- sciava colare il sangue delle vittime sgozzate in loro onore.

Di regola ogni altare era consacrato a una sola divinità; ma non mancano esempi di altari eretti pel culto di due divinità riunite insieme (fopoi didupor, bomdi didymoi) e anche di più. Tale l’al- tare dedicato ad Apollo ed Ermes (Mercurio) in Olimpia, e quello dei dodici Dei nella piazza del mercato (dyogé, agori) in Atene.

Assai spesso intorno all’altare v'era anche un breve tratto di terreno, considerato come sacro (téuevog, témenos), con recinto, al quale per lo più riconosceva, come al tempio, un diritto di asilo.

Gli altari eretti nei tempî servivano per offerte e per sacrifizi incruenti (fwwoi dirvgot, b. dpyroi ‘senza fuoco ’); quelli su cui venivano uccise irse (appunto perciò detti &uyrvgot, empyroi ‘col fuoco ’) vittime animali erano sempre costruiti al- + l'iperto, presso o dinanzi al tempio (f@wuoi ITOOVAOL, li, pronaot) al quale appartenevano.

Altari oltrechè nei tempî o presso ad essi ve

e

126 Parte terza

n’erano dappertutto, isolati, sia nelle pubbliche vie (f@uoi ayvieis, db. aghyieîs), sia sulle pubbliche piazze, o innanzi alle case de’ privati, o nei cortili di esse, negli orti, per le campagne, sui colli, sui monti, ovunque vi fosse qualche bosco (dA60g, al sos), o terreno considerato come sacro.

% 3. IL TEMPIO (vaòg, mads, attico veoSs, me05, anche ieoòr, kieròn). I tempî greci erano di re- gola costruiti sulle acropoli delle città, e perchè l’acropoli, o città alta, era la parte più antica della città e perchè era la più sicura dalle invasioni ne- miche (s0Atodygo 9e0i, poliouchoi thevi, erano gli Dei protettori della città). Così sorgevano sull’acropoli i tempî più venerati di Atene.

Il tempio greco aveva forma rettangolare, coi due lati ai fianchi lunghi, press’a poco, il doppio degli. altri due; e poggiava sopra un largo basamento rilevato dal suolo e a gradinata, lo ‘stilobate’ (orvAofàtns, stylobates). Il numero dei gradini sul davanti era di regola dispari, e ciò in omaggio alla superstizione, che chi vi accedeva incominciando a salire col porre il piede destro sul primo gradino giungesse in cima ponendo il piede destro anche sull’ultimo: la qual cosa era considerata di buon augurio. Sulla facciata del tempio, cioè propria: mente della cella, che era la parte rinchiusa dalle pareti in muratura, il vaòg nel senso vero della parola, si trovava per lo più un atrio o vestibolo, il ‘pronao’ (ro6vaos, fronaos), formato da quattro, sei o otto colonne (vaòs srodorvAos, n. prostylosi

Antichità sacre 127

stylos colonna ’). L’intervallo'fra colonna e colonna era ordinariamente chiuso da «cancelli. Un colon- nato corrispondente all’atrio v'era talvolta anche nella parte posteriore del tempio (vaòg dugpurod- otvAos, n. amphiprostylos), la quale era detta opi- stodomo’ (dmo96douos, opisthidomos). I tempî più suntuosi avevano tutto all’intorno colonnati (vaòg NEOINTVAOG O ITEOÎITEOOG: peristylos, peripteros; pie- (E ron ‘ala’: i colonnati sve- | gliarono l’idea delle ali), semplici o doppi (vaòs dlrteoos, n. dipteros). Il tetto era a due pioventi, appoggiati sui due lati di fianco, e quindi formava naturalmente un triangolo (derds, àgt@pua, aetòs, ae- foma) sulla fronte e sulla parte posteriore del tem- pio. Questo triangolo era | per lo più adorno nella pianta di tempio am$hiSréstylos. parte centrale, il ‘timpano’

(niutavov, tjmpanon), di alto-o bassorilievi artistici 0 di statue opportunamente aggruppate e disposte, rappresentanti la divinità a cui il tempio era con- sacrato, o qualche scena mitologica che ad essa si riferisse. Le statue in marmo erano non di rado (lipinte, o era dipinto a vivaci colori il fondo perchè esse spiccassero meglio. La porta d’ingresso era

Antichità sacre 129

pra una base di pietra (f4900v, bakron) e dinanzi a questa stava l’ara pei sacrifizi incruenti a cui già si è accennato. Invece della statua in alcuni tempî si trovava qualche oggetto che rappresentasse il Dio simbolicamente; così p. es. nei tempî di Estia (Vesta) la dea era rappresentata semplicemente dalla fiamma che veniva tenuta accesa perpetua- mente sull'altare.

Alcuni tempî avevano internamente, e per lo più sotterraneo, un piccolo locale (ugyaoorv, mégaron), considerato come più particolarmente sacro, una specie di sazela sanctorum, inaccessibile a ognuno, tranne che ai sacerdoti, e detto perciò anche adito (dòvtov, dayton).

V’erano tempî dedicati a due divinità insieme (vaoi durAot, nadi diplot), quali p. es. a Demetra e Cora, a Zeus ed Era, ad Atena e Apollo, a Dio- niso (Bacco) e ad Apollo; così pure tempî dedicati alle Erinni, o alle Muse, ecc.; anche tempî dedi- cati a tutti gli Dei (4207 mao, fheoîs past).

Alcuni tempî non erano accessibili che ai soli uomini, altri alle sole donne; alcuni non si apri- vano che in giorni determinati dell’anno, ne’ quali non vi potevano entrare che i soli sacerdoti e poche persone addette al culto. Tali in Atene l’an- tico tempio di Dioniso Leneo e quello di Atena Po- liade (‘civica’). Il tempio di Eurinome nell’Ar- cadia non veniva aperto che una sola volta al- l’anno,

I tempî contenevano spesso oggetti rari e pre-

9 Inama,

130 j Parte terza

ziosi offerti in dono dai devoti, talora così nume-

rosi e insigni per materia e lavoro da costituire

veri tesori; sono specialmente da ricordare quelli

dei tcempî, già nominati, di Zeus in Olimpia, di Ar-

temide a Efeso e del Partenone in Atene; nel

Partenone si conservava pure la cassa dello Stato.

Anche il tempio di.Apollo a Delo era molto ricco in doni.

Intorno al tempio v'era sempre un certo tratto di terreno, talvolta assai ampio ed esteso, consi- derato come sacro (téuevos). Era lasciato per lo più incolto; o vi si tollerava solamente il bosco (dAcos) e il prato, per pascolarvi gli animali, che si mantenevano per sacrificarli poi come vittime sull’ara. Una parte del terreno sacro era anche, ma di rado, messo a coltura, e i frutti o l’affitto che se ne ricavava appartenevano ai sacerdoti e servi- vano alla conservazione del tempio. Il terreno sacro era spesso recinto da muro o da siepi (#oxog 0 neoifoios, herkos, peribolos), ed era detto perciò anche ‘peribolo’. Non era permesso seppellire ca- daveri entro ad esso, e si evitava anche con molta. cura che vi venisse a morire qualche persona, 0. a sgravarsi qualche donna. Era anche vietato in- trodurvi certi animali, quali p. es. i cani ein gene-. rale tutti quelli che non dovessero o potessero ser- vire come vittime.

Sull’ingresso del sacro recinto stavano recipienti d’acqua benedetta, perchè i devoti entrandovi po- tessero fare le rituali abluzioni o purificazioni, le

Antichità sacre 13I

quali simbolicamente consistevano nello spruzzarsi leggermente il corpo con l’acqua consacrata (sr2040- cartijora, perirkrantéria; cîr. gaivo, vhaino puri- ficare ’).

Nel peribolo v’erano pure le abitazioni per i sa- cerdoti e le altre persone addette al culto e al servizio del tempio; nonchè le stalle per gli ani- mali da sacrificare. Nei periboli dei tempî dedicati alle divinità della salute vi avevano anche locali ap- positi per raccogliere e ricoverare gli ammalati, che vi si recavano per implorare dal Dio la guarigione.

Un medesimo sacro recinto chiuso poteva con- tenere due o più tempî dedicati a divinità diverse; così nell’Altisin Olimpia sorgevano oltre al gran san- tuario di Zeus parecchi altri tempî e edifizi sacri.

I tempî servivano di regola come luogo di ri- fagio, ossia di asilo (ie00v dovAov, Aieròn dsylon, ovvero dova, dsyla), per chi fosse perseguitato da qualcuno o nemici o ufficiali del governo esecu- tori di condanne. Il trarre di con la forza o il recare offesa a chi si fosse ivi rifugiato era empietà. Anche gli schiavi fuggiti ai loro padroni trovavano sicuro asilo in alcuni tempî, non in tutti. il pri- vilegio d’asilo era eguale e comune a tutti i tempî.

SACERDOTI E INDOVINI.

% 4. Una casta sacerdotale, come in Egitto e in altri paesi orientali, non ebbe mai la Grecia, nem- meno nei tempi più antichi. la religione greca,

132 Parte terza a differenza di altre religioni, ebbe dogmi che fos- sero imposti ai credenti da un’autorità superiore o con la forza. Le credenze religiose erano affatto libere; ma la religione comune a tutta la cittadi- nanza era considerata come una pubblica istitu- zione, e come tale doveva essere da ognuno ri- spettata. Chi la violava recando scandalo o facendo propaganda contro di essa, e dileggiandola turbasse la coscienza del popolo poteva essere accusato da chiunque e tradotto innanzi ai tribunali come reo d’empietà (doéfeia, asédeia), e veniva rigorosamente punito. Protagora, Anassagora e Socrate non fù- rono condannati perchè non credessero negli Dei, ma perchè turbavano con le loro dottrine la fede religiosa del popolo.

Ognuno rivolgeva preghiere e faceva sacrifizi agli Dei, senza l’intervento del sacerdote.

Il re pregava e sacrificava a nome di tutto lo Stato; aboliti i re, l'ufficio suo sacerdotale venne assunto in Atene dagli arconti, che gli furono so- stituiti, e più precisamente dal secondo, che con- servò anche; per ciò appunto, il nome di arconte re (dogov faces, archon basiléus).

Così negli altri Stati e nelle singole città e in ogni comunità politica, grande o piccola, i capi celebravano a nome di essa i pubblici sacrifizi. In ogni famiglia il capo era sacerdote degli Dei fa- miliari e ad essi a nome di tutti i membri della stessa celebrava i sacrifizi domestici (9voia IATQOL, Ihysiai pétrioi).

Antichità sacre 133

Sacerdoti (ieoeîs, hiereîs) propriamente tali non v'erano in Grecia che pel culto divino speciale ai singoli santuari, e ciò fino dalle età più remote e nei tempi omerici.

I sacerdoti non costituirono quindi mai una classe sociale diversa dalle altre; v'ebbero norme fisse, comuni a tutto il paese, che regolassero il sacer- dozio. Ogni tempio aveva i suoi propri sacerdoti, anzi per lo più non ve n’era che uno per tempio; ed erano isolati, senza rapporti fra loro.

Vi avevano sacerdoti (isgelg) e sacerdotesse (i&- vew, hiéreiai): queste per lo più addette al culto di qualche divinità femminile. Troviamo tuttavia non di rado anche sacerdotesse in tempî dedicati a Dei, come, p. es., in tempî di Apollo; ma più frequente era il caso contrario, che cioè sacerdoti presiedessero a tempî consacrati a Dee. Avveniva pure che il culto divino fosse celebrato in un me- desimo tempio da sacerdoti e sacerdotesse insieme.

Il sacerdote doveva godere di tutti i diritti di cittadinanza; appartenere al paese stesso in cui era il tempio; doveva essere di un'alta condizione s0- ciale, irreprensibile per condotta civile e morale, perfetto e sano di corpo, senza difetti fisici di nes- sun genere (dpeArg, apheles). Ad alcuni era pre- scritto astenersi da certi cibi; altri dovevano rima- nere celibi. Segni speciali nelle vesti che distin- guessero il sacerdote dagli altri cittadini pare non ne avesse, se non nell’adempimento delle sue fun- zioni sacerdotali; allora s'inghirlandava di corone di

Parte terza

fiori e con sacre bende il capo, coi capelli spioven sulle spalle, e indossava lunghe vesti talari, cioè. chitone’ disciolto, ora bianco candidissimo, ora come i sacerdoti delle Eumenidi in Atene, del color della porpora. In qualche luogo il sacerdote assi meva nel rito il volto e l'aspetto del Dio di cui S celebrava la festa.

Lo stesso dicasi delle sacerdotesse. Fra questi ve n'erano molte addette al culto di tempî deter- minati, che dovevano rimanere sempre nubili « osservare il voto di castità. Tali dovevano essere le sacerdotesse del tempio di Atena Alea in Tegea; e tali per lo più quelle dei tempi di Artemide,

matrone maritate. Sacerdoti e sacerdotesse godevano vari privile l’ inviolabilità, un posto distinto in teatro e nei luoghi

militare,

Accanto ai sacerdoti v’erano in qualche tempio fanciulli © fanciulle, che avévano parte nell’ eser- cizio del culto divino e venivano così avviando: al sacerdozio; non erano tuttavia obbligati a dedi- carsi ad esso, fatti adulti, se non ne avessero la vocazione,

Norme fisse per la scelta e la nomina de’ sacer-

Antichità sacre 135

Mn —’9’f’_-i dloti pare non vi fossero. Il sacerdozio non di rado ra ereditario in una medesima famiglia; vi aveva iliritto il primogenito; ma talvolta anche decideva In sorte quale dei figliuoli dovesse succedere al padre nell’ ufficio sacerdotale. Così in Atene era ereditario l'ufficio di sacerdote pei misteri Eleusini nella famiglia degli Eumolpidi, quello per Atena Poliade nella famiglia degli Eteobutadi; sacerdo- \ale era la famiglia dei Cherici (0vxes, kérykes) o araldi, come noi potremmo dire; così pure gli lamidi ad Olimpia, i Clitidi a Coo, i Branchidi a Mileto, altre famiglie altrove. A Tebe, a Sparta, a ‘Tera, a Cirene, tutti paesi dorici, era sacerdotale la famiglia degli Egidi (Alyidat, Aighidai). Ma al di fuori di tali casi, non frequenti, i sacerdoti erano nominati, o per scelta diretta o per estrazione a sorte, dal popolo, ora per un numero determinato di anni, ora a vita, In certi casi l'ufficio di sacer- dote per un dato tempio era anche messo per così dire all’ incanto e conferito a chi offriva di più. Ma in proposito abbiamo notizie scarse e incerte; sicure sono quelle intorno al numero dei sacerdoti addetti a ogni singolo tempio, ai loro gradi ge- rarchici.

Pare che quasi sempre vi fosse, a ogni modo, un sommo sacerdote (doyte0e0s, archieréus), e che questo fosse coadiuvato da più persone da lui di- pendenti, di diverso grado, ciascuna delle quali aveva sue proprie attribuzioni, alcune di carattere sacerdotale o sacro, altre, assai più umili, di sem-

136 Parte terza tt

plice servizio manuale. Ufficio press’a poco egua ai sacerdoti avevano gli ‘ieropei’ (fegortowoi, hi poidi); ma altri erano semplici inservienti, come af punto indicano i nomi loro, quali p. es. } ‘“idrano (000avds, Aydrands), che aveva cura dell’acqua pe le abluzioni, i sacri araldi (iE00m1]0vrEg, hierokérykes) i sagrestani (teoddovAor, hievbdouloi), i custodi de tempio (le0opAareg, hierophYlakes) e altri. In 00 casione di feste solenni o di solenni processioni pubbliche avveniva anche allora che molti del po polo si prestassero, o gratuitamente o retribuiti, è prendere parte alle sacre funzioni, sia come can tori (dur@dol, hkymuodbdi) 0 cantatrici (innjtoLai Aymnétriat), suonatori di flauto (isoavAa, hierauta o di tromba ( iegogaAmynrai, hierosalpinkidi), sia portare imagini sacre, stendardi, ecc., sia per alt eventuali servigi. V'erano pure collegi speciali pi invigilare sull’amministrazione dei beni del temp: a un di presso come i nostri fabbricieri.

Ufficio principale dei sacerdoti era naturalmente quello di pregare la divinità e celebrare i sacrifizi ad essa offerti dai devoti, e perciò appunto sonò detti anche ‘oranti’ (dontijo, femm. dgrter0a, avete areteira) o ‘sacrificanti’ (Iutijo, thytér, tegostotò hieropoids). Così pure spettava ad essi ogni alt funzione richiesta dai riti del culto, e tutto quanto riguardava la conservazione del tempio affidato alle loro cure e del terreno sacro annesso, |

Le rendite dei sacerdoti erano assai varie e div Verse, secondo la varia importanza e ricchezza del

Antichità sacre 137 tempio. Spettavano loro le elemosine, per le quali era collocata apposita cassetta accanto al tempio, e ina parte delle vittime immolate, per lo più la pelle, le corna, le cosce: e questa era rendita cospicua nei tempî più venerati e frequentati dai devoti. Anche una parte delle offerte era prelevata per loro, sia di vino, sia di biade, sia di frutta, ecc,; così pure competevano ai sacerdoti i frutti dei ter- reni del tempio che fossero coltivati, o direttamente da loro, o da altri, a cui li avessero concessi in affitto. In tempi posteriori si ebbero sacerdoti che percepivano uno stipendio dall’erario pubblico, e allora si formarono spesso talune associazioni cul- turali, i cosidetti Ulaco,vthiasoi (anche &0avot, éra- uoî), di cui potevano far parte donne e schiavi; attendevano quasi esclusivamente alla celebrazione di riti stranieri.

% 5. Affini ai sacerdoti erano gl’ indovini (navtes, manteis), che professavano l’arte d’inter- pretare, da segni particolari, la volontà degli Dei,

I Greci e i Romani furono popoli assai supersti- ziosi: da ogni fenomeno, da ogni atto, da ogni pa- rola, da ogni accidente cavavano auguri e crede- vano di potere con questi conoscere il futuro. E poichè tutto quanto accadeva era attribuito alla di- vinità, così era la volontà divina ch’ essi coi loro auguri superstiziosi pretendevano di giungere a co- noscere.

V’ebbero quindi fin dai tempi più antichi per- sone che, in buona o mala fede, si ritenevano, ed

138 Parte terza

erano ritenute anche dal popolo, capaci d’ inter- pretare da segni (o7uata, semata) particolari il vo- lere degli Dei. Queste persone erano non di rado i sacerdoti stessi addetti al servizio di qualche tempio o al culto di qualche Dio, ovvero persone che ave- vano alcunchè di sacerdotale. Il popolo riponeva piena fiducia in loro e le circondava di sincera devozione e venerazione. Basti ricordare per l’età eroica i nomi di Calcante, di Melampo, di An- fiarao, di Tiresia, nonchè, a tacere di non pochi altri, quello di Cassandra, figlia di Priamo; la Grecia ebbe non soltanto profeti, ma anche profetesse, sebbene in minor numero, Nell’età storica non si trovano quasi più indovinî di tal genere: sono ri- cordati, con pochi altri, meno famosi, Epimenide di Creta, del VI secolo a. C., che purificò Atene da un sacrilegio, Anfilito, contemporaneo di Pisi- strato, a cui predisse il ritorno ivi, e Lampone, che prese parte alla fondazione di Turii.

Ebbero invece gran voga soprattutto fra la molti- tudine ignorante gl’ indovini comuni; può dirsi che ve ne fossero in ogni città; e molti di essi vaga- vano anche di paese in paese esercitando la pro- fessione loro, che era non di rado molto lucrosa. Traevano gli auguri da ogni cosa; più spesso dal volo e dal canto degli uccelli di rapina, quali l’a- quila (detos, aezòs), l’avvoltoio (vw, £y2s), lo spar-. viero e il falco (i&oaf, Îoné, hierax, irex), e altri uccelli che vivono solitari (06@vòs, oi0n0s, donde olmvookoria, civooKoriKi) cioè téyvn, oionoskopia,

Antichità sacre 139 BIT

I >IIÈ»ÈiOI®)®)®Ò,

vionoskopikè techne) e non a stormi. Da ciò ap- punto la parola latina auspicium (da aves inspicere) e ‘auspicio’ nostro, che fu usato poi per indi- care qualsiasi specie di augurio; e la parola che significava ‘uccello’ (dov, ornis, lat. avis) così nel greco, come nel latino si usò pure per dire ‘augurio’. A seconda che questi uccelli apparis- sero volando piuttosto in una che in altra plaga del cielo (réuevos ald#00g, lÉmenos aitheros, lat. templum) e che il loro volo tenesse una direzione anzichè un’altra, diverso ne era il significato per l’indovino. Egli nell’atto di consultare gli auspici volgeva la fronte verso settentrione, e se gli uccelli apparivano alla sua destra e il loro volo era diretto verso oriente, consideravasi come favorevole 1’ au- gurio (olovòs destos, emdétia, cionòs dexids, epi- déxia); viceversa l’augurio era cattivo se gli uccelli e il loro volo apparivano alla sua sinistra, diretti verso occidente.

Ma oltrechè dal volo degli uccelli gl’ indovini traevano auguri o pronostici dai fenomeni celesti (dioonuetia, ovvero tÉé0as, pl. téoata, diosemeia, teras, igrata): dal tuono, dal lampo, dal fulmine, dalle eclissi del sole e della luna, dall’ arcobaleno. Pro- nostici sul futuro ricavavano soprattutto dai sogni, poichè il sogno credevano mandato da Zeus (dvao èu Aduog goti, onar ek Diòs esti: Omero Z/. I 63); e gl’indovini interpreti di questi erano designati connome speciale (0veroduavtis, ovvero òvEL0OT0À0S, OVELVOOKOITOG, oneir6mantis, oneiropolos, oneirosko-

140 Parte terza rn PIE

4 #05). Ognuno sa e ricorda quanta parte abbiano i sogni nei componimenti letterari dei Greci e dei Romani, da Omero in poi.

Auguri erano tratti da voci o parole udite a caso, da suoni o grida d’ uomini o d’animali, quali lo Sternuto, la tosse, l’ululato, l'abbaiare e simili che in momenti d'incertezza, d’ansia o d’angoscia fos- sero eventualmente sentiti (Pun, pl. Piuar, rindor pI. xAyddves, dheme, phemai, kledén, kledones), 0 quand’uno fosse in dubbio se fare o non fare, se intraprendere o sospendere alcunchè d’importante nella vita. Di buono o di cattivo augurio era l’in- contro fortuito di persone o di cose lungo la via che uno percorreva (Ev6dior ciuBodo, enddioi svn boloi). Da tutto insomma la superstizione sapeva 0 credeva di poter ricavare Pronostici sull’ avvenire,

di conoscere la volontà degli Dei.

Tuttavia la forma più sicura e più solenne del- l’arte d’indovinare il futuro e di conoscere i voleri divini, cioè della © mantica (uavti) téyvn, mantikè techne), come dicevasi, era quella fondata sui sa- erifici ((egouavisia, ieoooxovtia, hieromanteia, hiero-. skopia), nella quale 1’ ufficio dell’indovino veniva a. confondersi con quello del sacerdote, o per meglio dire questo assumeva le funzioni di quello. Nel sacrifizio, mentre la vittima sgozzata e aperta ardeva sull’ara, egli badava a tutto: al sangue, se scorreva più libero. O più lento, se di colore più chiaro o più scuro; alla fiamma, se ardeva più vivace o più stentata, se s’inalzava diritta o obliqua (&usrvoa Giuata,

Antichità sacre I4I

émpyra sémata); badava principalmente alle viscere della vittima (om4dyyra, splanchna), al fegato, al cuore, alla milza, se lisce o rugose, se rosse o brune, chiare o nere; da tutto insomma egli rica- vava l'auspicio o favorevole o contrario a ciò per cui era interrogato.

Questa specie di mantica poteva essere esercitata in ogni luogo, in città e in campagna, ovunque uno si trovasse, ovunque potesse farsi un sacrifizio. Ma v’erano luoghi particolari, consacrati al culto di qualche divinità, dove la volontà di questa ve- niva manifestata in modo più esplicito e sicuro: erano questi gli oracoli (uavteia ovvero y0not)0ta, manteia, chrestéria), di cui parleremo più avanti.

PREGHIERE, SACRIFIZI E OFFERTE.

% 6. La manifestazione più semplice e spontanea del sentimento religioso era la preghiera (2ùyr), Arai, euché, litài). Ogni atto della vita era preceduto 0 accompagnato da preghiere; preghiere per inter- cedere un favore, preghiere per ringraziare di un favore ricevuto, preghiere per chiedere perdono di colpe commesse o per espiare delitti e peccati. La preghiera venne ben presto ridotta a formole fisse e a modalità rituali. Il Greco pregava stando in piedi, a capo scoperto, con la faccia rivolta verso oriente, tese le braccia in alto, con le mani alzate verso il cielo, considerato come la sede degli Dei

| preghiere e da imprecazioni per chi lo violasse.

142 Parte terza

superi. Che se invece egli dirizzava la sua pre- ghiera agli Dei inferi, volgeva e la fronte e le braccia verso terra, e questa toccava, o percuoteva più volte ripetutamente con le mani o coi piedi. Egli pregava prima di prendere cibo, pregava prima di metter mano ad alcunchè, soprattutto se ciò che stava per fare era cosa importante, o se era di riu- scita incerta, o pericolosa, come ad esempio se si po- neva in viaggio per mare verso terre lontane, o per qualche spedizione guerresca. Anche le impreca- zioni contro i nemici, e le maledizioni contro mal fattori o delinquenti, quali i violatori di tombe o di cadaveri, di tempî o altari, i traditori della pa- tria, assumevano carattere sacro di preghiera; sacro. era il giuramento e accompagnato esso pure da

La preghiera era sovente preceduta e accompa- gnata da abluzioni delle mani, o di tutta la per sona, perchè puri di spirito e di corpo bisognava presentarsi agli Dei. Se qualche pubblica sventura colpiva una città o un paese, quale una pestilenza, o una strage che coprisse di cadaveri le vie, a vano luogo pubbliche e solenni abluzioni o purifi cazioni (xadaguoi, katharmoi) in acqua lustrale, 0 nelle libere correnti de’ fiumi, o nelle onde mare, e la popolazione tutta intera vi prende parte, con accompagnamento di preghiere, che p cassero l'ira degli Dei e cacciassero dal paese | miasmi onde era contaminato. i La preghiera collettiva di tutto il popolo si tra

Antichità sacre 143

sformava naturalmente in canti e inni (fuvot, Aymzot), accompagnati dal suono della cetra, della lira, o del flauto, e da movimenti e danze ritmiche. Questi canti, come la storia letteraria c’insegna, assume- vano forme e nomi diversi secondo il diverso loro carattere, e la divinità diversa o la diversa occa- sione per cui erano fatti. Si avevano così peani’ (zaraves, paianes), prosodie ? (moooddia, prosbdia), iporchemi’ (drroogijuata, kyporchémata), ‘ditirambi’ (dioauPo, dityramboi), ecc., tutti canti di pre- ghiera, che furono poi dal genio de’ poeti elabo- rati e inalzati a dignità letteraria e artistica.

3 7. Più solenne era la preghiera accompagnata da un sacrifizio. V’erano varie forme di sacrifizio. Talora esso consisteva in una semplice offerta di alcunchè, che ponevasi sull’altare, o appendevasi ne’ tempî, dedicandolo così in dono alla divinità alla quale il tempio o l’altare erano consacrati. Le of- ferte più comuni erano le primizie delle frutta e delle messi dei campi; ovvero certe focacce (ré4a- vo, rréuuata, srorrava, piGar, pélanoi, pémmata, pipana, mazai) appositamente impastate, di forme svariate, raffiguranti spesso gli animali che si sa- rebbero voluti sacrificare, e di cui simbolicamente lovevano fare le veci. Tra i vari ingredienti di tali focacce v’aveva parte non piccola quasi sempre il miele.

Ardevansi talvolta sull’ara legni odorosi o piante iromatiche, quali il cedro, il mirto, il ginepro e il fico; il fumo denso e odoroso che si levava al cielo

144 Parte terza

(rypalia EbAa, nephdlia xyla) era dedicato al Dio, a guisa di sacro incenso. L'altare veniva per lo più cosparso di libazioni (orrovdai, Aoifai, spondai, loibat) con vino, con miele, con latte, con olio, o altro, e di queste una parte veniva bevuta o assaggiata dai devoti, il resto era consacrato al Dio. Le libazioni erano, naturalmente, accompagnate da preghiere, da invocazioni e da evocazioni superstiziose. $ S. Accanto a questi sacrifizi incruenti v'era il sacrifizio cruento: il vero e proprio sacrifizio per i Greci (ieodr, ieod, hieròn, hiera), consistente nello. scannare e ardere sull’altare una vittima animale. Il sacerdote, inghirlandato e ornato il capo di fiori e di sacre bende, sgozzava (opdgo, cpayufopat, sphazo, sphaghidzomai) egli stesso la vittima, essa. pure inghirlandata e ornata a festa, con le corna spesso dorate. Egli spargeva prima su di essa il sacro. farro, cioè farina o grani d’orzo abbrustoliti (0dAai, odAogita, ouldi, oulochytaî), recato in canestri do- rati, adempiendo con scrupolosa esattezza compli cate cerimonie rituali, di cui il significato simbolico. non era più nemmeno noto ai sacerdoti. L’araldo in- vitava i numerosi devoti, che intorno all’ara nel sacro recinto assistevano al sacrifizio, a starsene silenziosi (edpnuemw, ebprnuia goto, euphemein, euphemia esto), per non turbare con voci profane o di malaugurio la funzione religiosa; una ciocca di peli era reci sulla fronte dell'animale e gettata nel fuoco; poi la vittima veniva sgozzata, e il sangue si lasciay colare sull’ara: ne erano tratte le viscere che

Antichità sacre 145

abbruciavano con alcune parti dell’animale in onore del Dio; altre parti, fra cui le cosce (soia, re- ria), si distribuivano ai sacerdoti e agli astanti, con libazioni di vino, di latte o di altri liquidi. Mentre la vittima ardeva e alta si levava e vivida la fiamma, i devoti inalzavano al Dio canti d’inni sacri, con suoni di flauto o d'altri strumenti mu- sicali, fra le grida di gioia o di dolore delle donne (0R0Zuyij, dAoRUpudòs, dAoAibew, ololyghé, ololygh- nos, ololyzein).

Le vittime erano per lo più buoi, pecore, capre, maiali, in generale animali domestici, le cui carni fossero mangiabili. Ma ad ogni singola divinità erano anche destinati a preferenza certi animali; per esempio, a Dioniso (Bacco) era sacrificato di re- cola un caprone o un cignale, animali infesti alle viti, a Demetra (Cerere) un porco, una giovenca ad Atena {Minerva), galli e galline ad Asclepio (Escu- lapio) e ad Eracles (Ercole), oche a Iside, a Posei- done {Nettuno) un toro, alle divinità fluviali un ca- vallo, e così via. D'altra parte, ad alcuni Dei non era lecito sacrificare certi animali; così, per esempio, non veniva mai sacrificata una capra ad Atena, un maiale ad Afrodite (Venere).

Ma la scelta delle vittime, o il numero maggiore o minore di queste dipendeva il più delle volte dalle condizioni economiche di chi faceva fare il sacrifizio. I poveri dovevano per necessità accon- tentarsi di offrire agli Dei animali di poco costo e poche e povere vittime, mentre i più ricchi pote»

10 INAMA,.

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se erano buoi o giovenche si preferivano quelli non

Parte terza

vano celebrare sacrifizi suntuosi e grandiosi qualità e numero d’animali. Così pure più modesti, di regola, erano i sacrifizi offerti da una sola pers sona, più solenni e costosi quelli da più devoti riuniti insieme. Intere città e popolazioni celebra» vano alle volte sacrifizi pubblici (Onuotedets Vvoiaty demoteleîs thysiaî), i quali naturalmente riuscivano allora eccezionalmente grandiosi per il numero degli animali uccisi. Erano chiamati ‘ecatombi’ (as toufn, ekatombe); e probabilmente in origine in questi sacrifizi venivano realmente sacrificati, com@ il nome stesso dice, cento buoi (£xatòv Bovs, ekatòn bois): deve recar maraviglia che si uccidesse un numero così enorme d’animali. Giacchè o corre osservare che ben di rado tutta intera la vit- tima veniva abbruciata: in tal caso il sacrifizio dicevasi olocausto (0Roravotds, bAoravrety, holo= kaustos, holokauteîn, da 6Aos, holos, lat. totus, ® naio 0 raso, kaio, kauo, lat. ardo); il più delle volte dell’animale era arsa soltanto una parte, e il resto veniva distribuito agli astanti e ai sacerdoti, Così era naturale che quando un grande numero di persone, o un'intera città o un esercito intero face- vano un pubblico e solenne sacrifizio, molte doves-. sero pur essere le vittime per imbandire con esse. il banchetto, che accompagnava sempre o seguiva il sacrifizio stesso,

Gli animali scelti per vittime dovevano essere. senza difetti; si dava la preferenza ai più giovani:

Antichità sacre 147 RT IRE

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ancora sottoposti al giogo e al duro lavoro dei campi. Di regola venivano sacrificati animali maschi agli Dei, e animali femmine alle Dee; ma questa norma non era costantemente seguita. Così pure erano scelti animali di colore bianco 0 chiaro per gli Dei superi, di colore nero per gli Dei inferi. Che nei tempi più antichi siano stati in uso an- che presso i Greci sacrifizi umani è cosa certa. Ne sono frequentemente ricordati nei racconti mitolo- gici e leggendari : basti accennare ad Eretteo, che sacrificò le proprie figlie; a Ifigenia, che però fu salvata da Artemide, e a Polissena; a Codro, che sacrificò spontaneamente stesso per la salvezza della città. Ma fin dai tempi storici più remoti tali sacrifizi umani erano caduti in disuso, la coscienza morale e il sentimento artistico dei Greci, pur ri- cordando nella leggenda l’ uso barbaro crudele, cercaya di coonestarlo raffigurandolo quale sacri- fizio di pubblica espiazione o di salvezza perla patria. Tuttavia se ne ebbero anche in tempi storici meno lontani : infatti a simili sacrifizi ricorsero Epimenide di Creta, sopra ricordato, Temistocle, che immolò alcuni prigionieri persiani prima della battaglia di Salamina; e ancora nel II secolo d. C. vigeva l’uso di sacrificare vittime umane in onore di Zeus Liceo. Sugli altari e lungo le pareti del tempio veni- vano assai frequentemente appesi doni votivi (dva- Uijuara, anathémata), che ricordassero i voti fatti e le grazie chieste e ottenute dal Dio. Le giovani donzelle vi appendevano le lunghe chiome recise,

148 Parte terza

offerte in sacrifizio e in dono; i guerrieri le armi nemiche conquistate in battaglia; i naufraghi sal- vati dalle burrasche, gli ammalati guariti di gravi malattie, tutti coloro insomma che fossero scam- pati a qualche pericolo offrivano oggetti simbolici o quadri, che ricordassero la grazia miracolosamente ottenuta. Molte di tali offerte erano preziose per materia e per forma e lavoro artistico: tripodi e vasi e statue d’oro, d’argento, di bronzo.

OracoLI E MISTERI.

$ 9. Di oracoli ve n’erano in ogni provincia. della Grecia, quali più, quali meno antichi, venerati, famosi. Antichissimo sopra tutti quello di Zeus a Dodona (4o0ddvn, Dedone), celeberrimo quello di Apollo in Delfo (AeAgoi, De/pAdi). Zeus e Apollo. erano gli Dei degli oracoli; essi soprattutto avevano la virtù di rivelare agli uomini il futuro: Calcante e Cassandra infatti riconoscevano come grazia avut: da Apollo l’arte loro di pronosticare i futuri eventi. Ma v’erano oracoli consacrati anche ad altre dir vinità.

L’oracolo era quasi sempre unito a qualche tem pio; la sede sua era per lo più posta in luoghi ap: partati, lontani da città o villaggi, da centri popo: lati, in generale; in luoghi solitari, dove la severî natura del suolo già per contribuisse a render l’anima accessibile all’ascetismo, predisposta all

Grotta di Apollo in Delo.

Antichità sacre 149

ansiose contemplazioni dei misteri oltremondani, in più vicino contatto, per così dire, col mondo so- prannaturale e divino. Nelle oscure profondità dei boschi sacri, nelle solitarie insenature de’ monti, ne’ profondi burroni, soprattutto dove eventual. mente si aprissero paurose grotte e caverne, dove dal suolo scaturissero sorgenti d’acque calde fu- manti, o sulfuree esalazioni vulcaniche di miste- riosa provenienza dalle viscere della terra, quivi erano i luoghi prescelti come sede degli oracoli. Intorno a questi la leggenda popolare accumulava racconti di fatti strani e miracolosi, che accendes- sero ancor più l’eccitata fantasia de’ credenti.

A Dodona, ai piedi del monte Tamaro nell’Epiro, si raccontava che in tempi antichissimi due colombe nere, fuggite dall'Egitto, avessero spiccato il volo, una verso la Libia, dove indicò il luogo fissato al- l'oracolo venerato di Zeus Ammone, l’altra per l'appunto verso Dodona. Quivi una quercia vetusta venne consacrata a Zeus Dodoneo (dodovatos, Dodonaios), e dal rumore che mandavano i suoi lunghi rami e le sue foglie agitate dal vento, dalle voci misteriose che parevano emanare da essi, due o tre vecchie sacerdotesse (sro0udvt£erg, IT00PVNTIdES, promanteis, prophetides) dette le Peleiadi? {(swre4ed- des, deleiades), ossia “le Vecchie’, raccoglievano i supposti responsi del Dio, che venivano interpre- tati ai creduli devoti dai sacerdoti, detti ‘Selli’ o ‘Elli? (2e4AAoi, ‘EAXoi, «Selloi, Helldi), addetti al culto e al servizio religioso del tempio. Il nome

Parte terza

150

peleiadi significa pure, in greco, colombe, e vuolsi che da questa omonimia nascesse poi la leggenda delle due colombe nere,

% 10. Forse meno antico, ma assai più noto e frequentato, soprattutto dopo l’invasione dorica, fu l'oracolo di Delfo nella Focide. La leggenda ne. attribuiva la fondazione ad Apollo stesso, dopochè ebbe ucciso un serpente, il Pitone (Ivaaw, Python), che infestava quei luoghi; ma sembra che prima. di lui abbiano presieduto all’oracolo la dea Gea (la Terra), e poi Temide, terza Febe, una Titani , che lo cedette ad Apollo; certo l'origine sua risa- liva ai secoli più remoti della storia greca. Era consacrato ad Apollo appunto quale uccisore del serpente Pitone, e la costruzione del tempio e ascritta ai due architetti mitici Trofonio e Agamede, Stava sulle pendici selvose del monte Parnaso, in. fondo a una valle cupa e ristretta. Il tempio da principio non era che una semplice capanna di legno, più tardi venne costruito in muratura e in pietra. Nell’Olimp. 582 (548-45 a. C.) fu distrutto da un incendio, e incendiato fu più volte in seguito; ma risorgeva sempre più splendido e suntuoso; la. prima volta fu riedificato per ordine degli Anfizioni. e per la larga generosità degli Alcmeonidi, esuli allora da Atene. L’opera venne condotta a termine nel 480 a. C., ed era insigne per pregevoli statue e sculture. Intorno al tempio primitivo vennero poi man mano eretti, entro il sacro recinto di esso, altri tempî ed edifizi artisticamente adornati di fregi e

Antichità sacre 150

di statue. Giacchè ogni Stato e quasi ogni città della Grecia voleva avere in Delfo una casa sua pro- pria, detta il tesoro (9noavoòs, thesaurds), ossia il deposito dei ricchi doni e voti preziosi che ciascuna ivi mandava e consacrava al Dio. Si vennero così nel corso de’ secoli accumulando in Delfo immense ric- chezze, sia in denaro, sia in oggetti preziosi per materia e per lavoro artistico. I Focesi, in occasione di una guerra, vi tolsero una volta ben 10 mila talenti in solo metallo, e Plinio asserisce di avervi contato più di 3000 statue d’oro, d’argento, di bronzo e di marmo, pur dopo i saccheggi di Silla e di Nerone.

I Greci consideravano Delfo come centro (dugpa- 205, omphalés) del mondo, cioè della terra da loro conosciuta, e questa credenza accresceva Venera- zione e rispetto al luogo. Sopra le porte del tempio erano scolpite, ad ammonizione e insegnamento dei visitatori, sentenze filosofiche e morali, a guisa quasi di proverbi, quali yv®g oeavtòv (gAnothi seautbn), nosce te ipsum e undév dpav (medèn agan), nequid nimis, a tutti noti.

La direzione dell’oracolo era affidata a un sommo sacerdote, detto profeta (710091)tN5; prophetes), coa- diuvato da altri cinque sacerdoti, detti i santi (dott, hosioi), scelti fra cinque nobili e antiche famiglie di Delfo.

La parte più riposta e segreta del tempio, ]’ ‘adito’, era costruita sopra una caverna, che scendeva pro- fonda nel suolo, da una spaccatura della quale

152 Parte terza

emanavano esalazioni gazose e sulfuree. Da questa erano ricavati i responsi del Dio, per mezzo di sacerdotesse, che erano dette ‘Pitonesse” (//u9ia, Pythiai). Da principio non ve n’era che una sola, scelta tra le fanciulle del paese; ma essendo stata essa una volta rapita, ed essendo aumentato assai il lavoro de’ responsi, per l'affluenza sempre mag- giore dei devoti, ne vennero nominate tre, scelte fra donne che avessero ormai compiuto i cin- quant’anni e fossero nate in Delfo. Assunte all’uf- ficio di Pitonesse queste sacerdotesse non potevano più abbandonare il tempio.

L’oracolo non rendeva i suoi responsi (y0nouoi, chresmbi), che in certi giorni fissi del mese, e li rendeva solamente a chi recasse ricchi doni in 0g- getti preziosi, od offerte di vittime. Gl’interroganti (Ssomodnoi, theopropoi) attendevano la risposta nel- l'abside, ossia nell’opistodomo del tempio. Nel- l’adito, ove il responso era dato, non scendeva che il sommo sacerdote, il quale interrogava, per mezzo della Pitonessa, il Dio. La Pitonessa si apparec- chiava ad esercitare il suo sacro ufficio, qualche giorno prima, con severi digiuni e preghiere é abluzioni e lavacri rituali nella vicina fonte Castalia, è con un sacrifizio in cui ardevano fumanti sull’ara foglie odorose d’alloro e di farina d’orzo. Giunto il giorno de’ responsi, il sacerdote conduceva la Pito-. nessa nell’antro sottoposto all’adito, e la faceva. sedere, ornata d'alloro, sopra un gran tripode, pure. adornato di rami di lauro, posto sopra la fessura.

Antichità sacre t53

donde uscivano le esalazioni sulfuree. effetto di queste, aggiunto all’eccitazione della fantasia sug- gestionata dai sacerdoti, alle condizioni fisiologiche della persona, preparate dai digiuni e dalle liba- zioni dei giorni antecedenti, alla ferma convinzione forse anche di esercitare in quel solenne momento un ufficio sacro e divino, faceva che la donna venisse presa da un’agitazione mervosa e convulsa e che allora pronunciasse parole strane e incom- prensibili. Tali parole o voci, prive per lo più d’ogni significato, come quelle delle nostre sonnambule da fiera, venivano raccolte dai sacerdoti e interpretate a modo loro, e ridotte in versi esametri, i quali costituivano appunto il sacro responso od oracolo. Questo era per lo più redatto in forma metaforica, oscura o ambigua, che facilmente potesse prestarsi a più interpretazioni diverse, sicchè in alcuna di esse il devoto interrogante trovasse quella che me- glio si confacesse al caso suo.

Difficile riesce a noi oggidi discernere quanto vi avesse di buona fede, di sincerità o di ciurmeria in questo strano procedimento, in questa singolare mescolanza di superstizione e di fede, di sentimento religioso e d'interessi materiali e profani. Certo è che l’autorità dell'oracolo di Delfo fu grandissima, non solo presso tutti i Greci, ma anche presso molti popoli e principi stranieri; mandarono infatti più volte a consultarlo, accompagnando la domanda con ricchi donativi e Mida re di Frigia, e Gige e Aliatte e Creso re di Lidia, nonchè i popoli d’Italia, e più tardi gl’ imperatori romani.

154 Parte terza

L'influenza sua non fu sempre solamente religiosa ; esso servì anzi non di rado ad intenti politici par- tigiani, il che nocque non poco in certi tempi alla sua fama e al suo credito. A scopi politici seppero per molto tempo ottenere favorevoli i suoi responsi gli Spartani, cosicchè l'oracolo parve essenzial- mente dorico; ma anche altri Stati greci lo ebbero alle volte dalla loro parte, nelle questioni con altre città.

L’oracolo fu anche un centro assai importante per notizie d’ogni specie ch’esso veniva raccogliendo dai numerosi devoti che da tutte le parti del mondo greco continuamente v’accorrevano, sicchè i suoi sacerdoti godettero nome di persone assai esperte e versate nelle faccende politiche e sociali. Le sue immense ricchezze attirarono più volte, in tempo soprattutto di guerre, gli avidi sguardi dei più forti. Esso fu da questi costretto a imprestiti forzosi, e fu anche più d’una volta saccheggiato. Famosa fra le altre fu la depredazione da esso patita nel 278 a.C. per opera de’ Galli, quando invasero la Grecia, quella sofferta per opera di Silla 1°86 a. C.

L’oracolo di Delfo fu soppresso, insieme con le feste Pitiche e Olimpiche, nel 394 dall’ imperatore Teodosio.

3 11. Oltre a questi due più celebri oracoli della Grecia, altri molti ve n'erano, non meno antichi e venerati, ma la cui rinomanza si estendeva a più ristretto tratto di paese: quelli di Zeus Ctonio (q96vuos, chikinios ‘sotterraneo, infero’) presso Le-

Antichità sacre 155

badeia, nella Focide, detto l’Antro di Trofonio; di Apollo in Abe, luogo pure della Focide; di Apollo Spondio in Tebe; di Anfiarao presso Oropo; di Dio- niso in Anficlea; di Zeus a Olimpia; di Apollo a Didime presso Mileto (Asia Minore).

Celebre presso i Greci, benchè in paese straniero, e da essi assai venerato era anche l’oracolo di Zeus Ammone nella Libia, nell’oasi di Siwa, poco lungi dalla colonia greca di Cirene. i

3 12. I MISTERI (Muomjoia). Il sentimento re- ligioso si elevava a singolare intensità e purezza nei culti segreti dei Misteri. Quantunque anche in questi, come suole sempre avvenire in cose di re- ligione, si associasse non di rado alla schietta fede la più crassa superstizione è ignoranza, o la ciur- meria mossa da bassi interessi mondani, non v’ha dubbio tuttavia che nei Misteri entrassero alte e nobili aspirazioni spirituali, e che il concetto reli- gioso s’inalzasse sino alla credenza nell’immorta- lità dell'anima e nella piena felicità in una vita futura nell’ oltretomba.

I Misteri erano culti segreti, riservati a un nu- mero ristretto di persone, ammesse alla conoscenza delle verità recondite e ai riti sacri solo dopo prove sicure di fede sincera e di pietà. Venivano cele- brati con solenni processioni e sacrifizi, con riti simbolici da appositi sacerdoti, i quali dal segreto stesso delle loro dottrine acquistavano maggiore autorità e venerazione fra il popolo de’ profani.

Di cosifatti culti segreti ve n’ erano parecchi in

156 Parte terza

diverse contrade della Grecia; ma due sopra tutti ottennero e a lungo conservarono una grande ri- nomanza e una larga e schietta venerazione presso tutti i Greci: i Misteri Eleusini sacri a Demetra (Cerere), e i Misteri di Samotracia o dei Cabiri (rà Kafiiocov doyia, ta Kabeiron brghia), sacri a Dioniso. Poco sappiamo di questi ultimi, che fu- rono in fiore soprattutto al tempo dei Diadochi, i successori d’ Alessandro Magno.

% 13. Più noti ci sono i Misteri di Eleusi, pic- cola città sacra o, forse meglio, sacerdotale, poco distante da Atene, nell’ Attica. L’ origine loro è molto antica, poichè ne troviamo cenno già nel VII secolo a. C. Erano celebrati nel tempio di De- metra (‘Elevoiviov, Eleusinion), circondato, come tutti i tempî greci, da un recinto sacro.

Le feste Eleusinie, che avevano luogo ogni anno, erano due: dei Misteri minori, celebrata nel mese antesterione (febbraio) in Agrai, sobborgo di Atene sulle rive dell’ Ilisso, nell’ Eleusinio; e dei grandi Misteri (ueydia uvotijoia, megala m.), che aveva luogo mella seconda metà del mese boedromione (settembre). Questa durava quindici giorni; nei primi quattro era celebrata in Atene, con purificazioni, abluzioni nel mare, digiuni, processioni e sacrifizi. Nel quinto giorno gl’iniziati (ota:, 25/27) si reca- vano in lunga e solenne processione, percorrendo la via detta sacra (ieod 6dés, Hierà hodés), ad Eleusi, dove avevano luogo altre feste e processioni not- turne, con fiaccolate, e rappresentazioni sceniche,

Antichità sacre 157

o come noi diremmo, quadri viventi (rà do@uera, ta dromena), raffiguranti i miti di Demetra e Core o Persefone (Proserpina) nell’Ade e altri relativi, con accompagnamento di suoni musicali e di canti, che eccitassero sempre più ed esaltassero fino all’ en- tusiasmo la fantasia dei devoti che vi assistevano. Alla contemplazione di tali spettacoli potevano es- sere ammessi soltanto gl’ iniziati dell’ anno prece- dente 0 èrr6ntai (epoptai) cioè ‘testimoni di veduta”.

Non venivano iniziate nei Misteri Eleusini che persone, uomini o donne, di schietta origine greca (requisito che più tardi cessò di essere obbligatorio), irreprensibili per condotta di vita. All’ iniziazione dovevano apparecchiarsi, per rendersene degne, con lunghi digiuni, aspre prove spirituali e intense preghiere.

Verano diversi gradi d’iniziazione, si passava dall’uno all’altro se non attraverso a nuove e dif- ficili prove di schiettezza di fede e santità di vita. I sacri riti, assai complicati e misteriosi, e le ini- ziazioni avevano luogo, di regola, di notte, affinchè le tenebre, rotte dall’incerto chiarore delle fiaccole, rendessero più grave e solenne il rito, ed eccitas- sero più fortemente il sentimento religioso, il quale alle volte si elevava ad esaltazioni ed estasi quasi morbose, cosicchè le cerimonie assumevano carat tere orgiastico, di vero fanatismo religioso.

La presidenza e la direzione dei Misteri Eleusini spettava per diritto ereditario alle due famiglie sa- cerdotali degli Eumolpidi e dei Cherici. Da esse

158 Parte ferza

erano scelti i vari sacerdoti addetti al culto del tempio di Eleusi: il gran sacerdote, che presie- deva alle iniziazioni (uvsiv, pvorapoyeiv, myein, mystagoghein), detto ‘mistagogo’ (uvotayoyòs, my- stagogòs), e il ierofante’ (isoopavtns, hierophantes) e la ‘ierofanta’ (isodgavtis, hierophantis), che insegnavano agl’iniziati i sacri segreti e i riti mi-. steriosi simbolici ; il “daduco’ (d4dosyos, dadonchos),

e il vigilante all’altare della Dea dr foLO, #0

epì bomò), e molti altri. Le complicate cerimonie,

piene di simboli oscuri, celebrate in parte fra il più

profondo silenzio degli astanti, rendevano gravi e

solenni le funzioni religiose di tali Misteri; i quali

erano circondati da venerazione tanto maggiore,

anche da parte dei profani che non vi appartene-

vano, quanto più grande era l’arcano in cui erano

avvolti, e quanto più vere e profonde erano imma-

ginate le dottrine segrete religiose e filosofiche in

essi professate.

Il numero dei Misteri, ossia dei c'.Iti segreti, au- mentò nella Grecia soprattutto per influenze venute dall’oriente. Fra gli altri ebbero poi larghissima voga i Misteri degli Orfici, setta di carattere mi- stico-religioso, per opera della quale nei Misteri Eleusini fu collegato con le vicende delle due Dee ricordate il culto di Dioniso Zagreo, divinità sot- terranea. I Misteri degli Orfici durarono fino ai primi secoli del Cristianesimo.

Antichità sacre 159

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Feste (goorai, heortdî). Q

2 14. I Greci avevano molti giorni festivi nel corso di un anno, nei quali i lavori dei campi e delle industrie e i commerci erano sospesi, sospeso il lavoro nei pubblici uffici e nei tribunali, per dar luogo a preghiere, 2 sacrifizi, a processioni, © a svariate cerimonie religiose, ora di carattere lieto, ora tristi e malinconiche. Ma non c'erano propria- mente feste ricorrenti periodicamente, dopo un de- terminato numero di giorni. Ogni giorno del mese, senza essere propriamente festivo, era dedicato al culto di qualche divinità. Così p. es. in Atene il primo giorno del mese era dedicato ad Apollo, 0 ad Ermes (Mercurio), o ad Ecate, dea lunare; il se- condo era dedicato agli Eroi; il terzo di ogni de- cade (il mese era diviso in decadi, anzichè in set- timane) ad Atena (Minerva), il quarto ad Afrodite (Venere) o ad Ermes, il quinto alle Erinni (le Furie), il sesto ad Artemide (Diana), il settimo e il ven- tesimo nuovamente ad Apollo, l'ottavo a Poseidone (Nettuno), il nono ad Elio (il Sole) e così via. Questi giorni sacri (iecounvia, hieromeniai) d' ogni mese non erano che parzialmente considerati quasi come festivi, e festeggiati soltanto da poche personé; erano eguali in ogni parte della Grecia. Giacchè i mesi incominciavano dappertutto nel medesimo

160 Parte terza n LIZA

giorno, l’anno egualmente. Ogni città av mesi suoi propri, ed erano quasi in ogni città versamente denominati (').

(!) L’anno presso i Greci era lunare, non solare, Constava dodici mesi (j-v, DIL piva, 20678, menes), ossia dodici lunazion ma per mettere in corrispondenza l'anno lunare, che conta & ] 354 giorni, con l’anno solare, che ne conta 365 !/, intercalavani a periodi determinati, un mese di più, detto ‘mese embolim (iv tpfédipos o tpfio)ipztos, men embblimos embolimatos) intercalare, Questa inserzione non avveniva allo stesso mod allo stesso tempo nelle diverse città, In Atene, ogni otto anil si ripeteva il mese poseideone,

Gli Ateniesi, e in generale anche gli altri Greci, divideva il mese in tre decadi, Nelle prime due decadi contavano i giori progressivamente, da uno a venti; cioè numerando il primo, | secondo, ece., della prima decade ($ex4tn dpyopévov, dekate ar chomenou, 0 lotajsvov puivos, Aistamenou mends, la decade cid del mese incominciante); poi il primo, il secondo, ecc, della mi | dia decade (Sex&rM pecolvros unvés, dekate mesounios ment, Invece i giorni della terza decade (Sex&em Vottpa, dekate hys ultima decade, ovvero dexATM PILvoÙyTOs pnvés, dekate phihinountoy mends, decade del mese calante) erano numerati in ordine decre» scente o regressivo, dicendosi il decimo, il nono, l'ottavo e così via dell'ultima decade per indicare i giorni 21, 22, 23 e così via del mese, Il primo giorno del mese era detto “numenia’ (your Wrviat, noumeniai), che propriamente vorrebbe dire novilunio,

In Atene l’anno incominciava ope il solstizio d'e-vate, I mesi erano i seguenti, e cor “ispondevano ciascuno, press’ poco, alla

seconda metà di un mese nostro e alla prima metà del mese suc». cessivo:

1, ecatombeone (txxtopfattoy, hekatombaibn) = luglio-agosto, 2. metageitnione (petavertvtiv, metagheitnibn) > agosto-set. tembre,

3. boedromione (Bondpopuoy, doedromibni = settembre-ottobre,

Antichità sacre I6I

Ma oltre a questi v’erano giorni veramente festivi, celebrati come si è detto, con solenni sacrifizi pub- blici e suntuose processioni pubbliche, con canti e suoni e danze, e banchetti pubblici e privati, Nei riti del culto e nel cerimoniale di molte feste greche erano rispecchiate, probabilmente, credenze più an- tiche, che si riferivano a una religione primitiva, più rozza e materialistica di quella dei secoli po- steriori, rappresentata dagli Dei dell'Olimpo. Giac- chè pare che in origine anche i Greci, come molti altri popoli, adorassero oggetti materiali o animali; ma il genio gentile de’ Greci elevò sempre più, no-

4. pianepsione (nuaveduoy, fyanepsiin) = ottobre-novembre,

5. memacterione (patpaxtraiptoy, maimakteribn) novembre-di- cembre.

6, poseideone (mrooerdety, Poserdeòn) > dicembre-gennaio,

7. gamelione (apm)ubv, gamelibn) = gennaio-febbraio.

. antesterione (&yScotmpuoy, anthesterion) == febbraio-marzo,

9. elafebolione (i\apufo)toy, elapheboliòn) = marzo-aprile,

ro, munichione (povyvyuoy, mounychion) = aprile-maggio,

11. targelione (SapyMitoy, thargheliòn) = maggio-giugno.

12 sciroforione (oxtpopopuby, skirophoriòn) = giugno-luglio.

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In Sparta, e in generale nei paesi dorici, l'anno incominciava dall'equinozio d'autunno; e i mesi erano: 1. erasio (Mpdowos, herdsios) = ottobre; 2, apelleo (dmelatos, apellaios); 3. diostno (&bodvos, diosthnos); 4. non si conosce; 5. eleusinio (t)evaobwtos, eleusinios); 6. gerastio (yep&oriwvs, gherdstios); 7. artemisio (àpte- plotos, artemisios); 8, delfinio (dehpivios, delphinios); 9. fiasio (plidoros, PAZidsios); 10. ecatombeo (txxtopfevs, hekatombéus); ri, carneto (xapvetoz; karneios); 12. panamo (màvayos, pdnamos).

In Beozia, in Delfo, altrove i nomi de’ mesi erano ancora diversi,

Ir INAMA.

162 Parte terza

bilitò e spiritualizzò i suoi concetti religiosi, giun- gendo a mano a mano al caratteristico ‘antropomor- fismo’ ellenico, cioè la completa umanizzazione degli Dei, anzitutto nell'aspetto esteriore.

% 15. FESTE PRINCIPALI D'’ATENE. Nessuna città della Grecia fu festaiuola quanto Atene, Quivi, sia per l’indole più aperta e il carattere più lieto degli abitanti, sia per le più prospere condizioni economiche della città in alcuni periodi della sua storia, sia pel sentimento d’arte comune a tutti i cittadini, le feste ricorrevano frequentissime ogni anno, a periodi determinati. L’arte, così della mu- sica, come del canto, de’ colori, dell’imitazione nelle svariate sue forme, entrava per non piccola parte nelle feste d’Atene. Alcune duravano pa- recchi giorni di seguito, liete o tristi, allegre o serie secondo il significato simbolico della divinità fe- Steggiata, e le sue attribuzioni. Altre non ricorre- vano che a periodi più lunghi, di quattro, di cinque anni, e queste naturalmente venivano celebrate con maggior solennità.

% 16a). Tra le feste più antiche d’Atene sono da porre le ‘Panatenee’ (Hava9vara, Panathénaia), le quali si dicevano istituite dal leggendario Erit- tonio e ampliate poi da Teseo: in origine, una festa campestre del ricolto, poi politica; erano an- che tra le feste più popolari. Ricorrevano ogni anno, ma ogni quinto anno la celebrazione di esse assumeva un’ importanza assai maggiore per lo sfarzo e il lusso delle cerimonie rituali, per gli

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spettacoli e i divertimenti pubblici che le accom- pagnavano, per l’affluenza straordinaria de’ fore- stieri, che da ogni parte della Grecia si recavano ad assistervi.

Queste Panatenee perciò erano dette le grandi Panatenee (tà ueydda, fa megala) per distinguerle dalle annuali, dette le piccole’ (tà sunod, la mikrit). L? istituzione delle grandi Panatenee era dovuta a Pisistrato, che con esse, come con altre analoghe istituzioni, voleva attirare sulla sua città Vl atten- zione e l'ammirazione degli altri Greci.

Le grandi Panatenee cadevano nel terzo anno d’ogni Olimpiade, e duravano dal 23 al 28 del mese ecatombeone. Erano celebrate in onore di Atena Poliade, protettrice della città. Ai preparativi, alle- stiti da lunga mano e con cura straordinaria, pre- siedeva una commissione apposita di dieci cittadini, detti ‘atloteti* o ‘agonoteti’ (ddAodeta, dyovo- Vérai, athlothetai, agonothetaî) cioè ordinatori delle gare 0, come noi potremmo dire, degli spettacoli, che formavano una delle maggiori attrattive della festa. La commissione veniva nominata dal popolo quattro o cinque anni prima della festa, affinchè non le mancasse il tempo di provvedere a tutto ciò che fosse necessario perchè riuscisse veramente solenne, grandiosa, degna della città.

La festa incominciava con gare consistenti in con- corsi ginnastici, musicali e ippici (dy@ves puuvoi, povownoi, immuoi, agones ghymnikoi, mousikoi, hippi- koiî). Questi ultimi erano corse di cavalli e di cocchi;

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i concorsi ginnici, gli esercizi della corsa a piedi, semplice e doppia (davdos, diaulos), della corsa di armati, della corsa con fiaccole accese (Aaurradndgo- pia, Aausrtadypogia, lampadedromia, lampadephoria), che aveva luogo di notte, della lotta, del pugilato, e anche, nei tempi posteriori, del pentatlo. I éon- corsi musicali erano vari essi pure; v’avevano gare fra suonatori di flauto e di cetra, fra cantori sin- goli che si accompagnavano da sè, col suono della cetra, o fra cantori di cori lirici. Appunto per tali gare musicali Pericle fece costruire un edificio ap- posito, l’ ‘Odeo ('OSew0v, Odeion), ai piedi dell’A- cropoli, poco lungi dal teatro di Dioniso. A rendere più liete e più educative le feste si aggiungevano pure trattenimenti letterari, la recitazione e decla- mazione fatta in pubblico degli antichi poemi epici, soprattutto dei poemi omerici, istituzione, questa, creata o riordinata e regolata da Pisistrato e dal figlio di lui Ipparco.

Premio ai vincitori delle gare era una semplice ghirlanda di ramoscelli, staccati dal sacro olivo (uogia, moria) venerato sull’Acropoli, e un vaso di creta ripieno d’ olio spremuto dalle olive dello Stesso albero sacro ad Atena. Ma premio più d’ogni altro ambito dal vincitore era pur sempre il plauso del pubblico,

La parte veramente religiosa e anche più splen- dida della festa era la grande processione (s01sti) ravadivar), pompè panathenaiké), che aveva luogo l’ultimo giorno, considerato come giorno natalizio

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della Dea. La processione percorreva, grave e 50- lenne, le vie principali e le piazze della città, tutte parate a festa con verdi rami e fiori. Veniva por- tato in essa un ricco manto o ‘peplo’ (sré7r40g, peplos), un gran pezzo di drappo giallo, con cui dapprima si copriva la statua in legno della Dea contenuta nel tempio detto l’Eretteo, appositamente ricamato da scelte donzelle (é&oyaorivat, ergastinatî), e offerto alla Dea nel suo tempio principale, il Parte- none, sull’ Acropoli. Nella lunga processione, presso ai sacerdoti venivano condotte da appositi garzoni le vittime destinate ai sacrifizi. Alla processione prendevano parte fanciulle e matrone, recanti ca- nestri di fiori (xavngpéoor, Zanephoroi), vasi arti- stici e oggetti sacri; giovani e uomini adulti, questi armati in pieno assetto di guerra, così a piedi, come a cavallo; vecchi con rami d'ulivo in mano (9aXAo- péoo, thallophoroi); vi partecipavano in schiera i vincitori delle gare dei giorni antecedenti. In coda alla processione seguivano i meteci, uomini e donne, recanti essi pure offerte e doni d’ogni specie. Inter- venivano ad essa anche le numerose rappresentanze o ‘teorie’ (Fe@piat, fheoriai) inviate, a rendere più solenne la festa, dalle colonie e dalle città alleate di Atene, cosicchè la processione assumeva carat- tere, per così dire, nazionale.

La festa finiva col grandioso sacrifizio dell’ eca- tombe, seguito da lieti banchetti pubblici (&0rt40ztg, hestiaseis) e privati.

è 17 6). Altra festa grandiosa e, pel suo carat-

E go

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tere schiettamente religioso, forse la più solenne delle feste di Atene era la festa detta Eleusinie” (td Ekevoima, ta Elensinia). Questa godeva rinomanza in tutta la Grecia per la somma venerazione onde erano dappertutto circondati i Misteri Eleusini, di cui abbiamo già parlato, come pure delle feste; qui aggiungiamo altre notizie. Per rendere più facile l'intervento de’ forestieri in Atene veniva bandita, come per le grandi feste nazionali, una tregua ge- nerale (éueyeioia, ekecheiria) o sospensione d’armi e di guerra nei giorni che la precedevano e la se- guivano.

La festa era consacrata a Demetra, a cui Pericle aveva fatto erigere in Eleusi uno splendido tempio. Nel primo giorno della festa si riunivano in Atene, nel portico detto Pecile’ (/fow4) otod, Porkile stod), i ierofanti e i daduchi, sommi sacerdoti della Dea, insieme con le altre autorità, cui era affidata la direzione delle feste, per provvedere a quanto fosse necessario, ond’esse si svolgessero ordinata- mente, secondo le tradizionali prescrizioni del culto. Seguivano le sacre abluzioni con acqua attinta dal mare, i sacrifizi solenni (Jia, #iya), accompa- gnati da processioni e banchetti, a Demetra e Core, a Dioniso, ad Asclepio (Esculapio), ad Eracles (Er- cole), ai Dioscuri, e ad altri eroi.

Nella grande processione, già ricordata, del quinto giorno la statua di Tacco ("Iuxyog, lakchos), figlio di Demetra, morto ancor giovinetto, era tolta dal tempio di Demetra, l’ Eleusinio di Atene, e tra-

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sportata lungo la via sacra al tempio della Dea in Eleusi. Alla processione insieme coi sacerdoti pren- devano parte i primi magistrati della città, e tutti gl’iniziati ai sacri misteri, con ghirlande di erica e di mirto in capo.

Le feste finivano poi lietamente, dopo la bevuta del mistico ciceone* (xvuedòv, ky4e02), con danze e tripudi d’allegrezza. Giacchè in esse era ricor- dato e simboleggiato il mito di Persefone rapita alla madre Demetra, e da questa affannosamente per più giorni ricercata e ritrovata poi con somma gioia e letizia.

% 18 c). Una festa riservata alle donne maritate, che vi si preparavano con astinenze digiuni, era quella delle ‘Tesmoforie’ (0ecuopéoia, Thesmo- phoria). Durava dal 9 al 13 del mese pianepsione e veniva celebrata parte in Atene, parte in Alimunte, piccolo demo, ossia villaggio, distante circa un’ora e mezza di cammino dalla città. Il primo giorno le donne si recavano, in lieta e allegra processione, da Atene ad Alimunte, e quivi il giorno dopo offrivano un solenne sacrifizio a Demetra ‘tesmofora ? (ipojene Jecuopdoos, Demeter thesmophoros), vale a dire alla Dea ‘ordinatrice dell’ ordine sociale’, in onore della quale, come Dea del matrimonio, cioè delle nozze legittime, appunto era celebrata la festa, nel tempio a lei consacrato (Gecuopoowov, Thesmo- shorion), in Alimunte stessa. Fatte preghiere alla Dea le donne ritornavano in città processionalmente accompagnando i $ecuoi (thesmoi), cioè le leggi

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date, secondo la tradizione, da Demetra; quivi continuavano per tre giorni ancora i festeggiamenti, con preghiere e sacrifizi. L’ ultimo era festeggiato anche con danze e si chiamava KaiXyéveta, Kalli- ghéneia ‘della bella prole’, che le donne invoca- vano dalla Dea.

% 19 4). Nello stesso mese pianepsione verso la fine cadevano le feste Apaturie’ (Asrarovora, Apa- totirta), feste che potremmo dire delle parentele, perchè erano celebrate dalle singole fratrie, sepa- ratamente, in onore di Atena e di Efesto (Vulcano). Duravano tre giorni. Incominciavano con un ban: chetto tra i ‘fratori’ (podt®oes, fhratores), i membri cioè di una medesima fratria; seguiva nel secondo giorno un sacrifizio solenne a Zeus fratrio e ad Atena fratria (Zebs podtowos, ‘Adnva poarpia, Zéus phratrios, Athena phratria); nel terzo, detto del taglio dei capelli, perchè i giovani se li tagliavano. e li offrivano agli Dei, venivano presentati al fra- triarco, cioè capo della fratria, e ai seniori di questa, a ciò delegati, i bambini nati nel corso dell’ anno, perchè fossero riconosciuti come figli legittimi e. venissero inscritti, sui relativi registri, nella fratria.. Questa cerimonia era accompagnata dal sacrifizio di una pecora o di una capra per ognuno dei nuovi. inscritti (06 Poatno, ali podtmo, cis phratér, aix phrator).

% 20 e). Alle feste fin qui ricordate sono da ag: giungere le quattro feste Dionisiache’ in onore. di Dioniso o Bacco, In esse venivano commemo»

cai e e a

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rate e raffigurate le varie e strane vicende della vita di questo singolare Dio greco, e le nume- rose sue attribuzioni.

Erano le feste Lenee’, le ‘grandi’ e le pic- cole Dionisie’, e le Antesterie ’.

a) Le Lenee (rà Anvaa, la Lénaia), dal 9 all’it del mese gamelione, venivano celebrate nel tempio dedicato a Dioniso, al sud dell’ Acropoli, detto appunto il Leneo” (Anvaròy, Lenaiòn), dal nome del torchio (4nv0s, /er6s). Erano rallegrate da canti di cori ditirambici, di carattere libero, spigliato, quasi orgiastico, e in tempi posteriori anche da rappresentazioni dramatiche; v’erano pro- cessioni e lieti banchetti (x@7ot, 4omoî), nei quali erano imbanditi e gustati i vini nuovi dell’ annata.

f) Le piccole Dionisie, feste assai modeste, celebrate nel mese poseideone, il mese del vino nuovo, precedevano di poco le Lenee. Avevano luogo in campagna ed erano dette perciò anche Dionisie rurali’ e Teoinie (duoviota surod 0 A. var dyoovg 0 Beoima, Dionysia ta mikrà, D. kat agrous, Theoinia). Ne facevano parte giuochi di fanciulli o giovani, che consistevano nel saltare con un piede solo su otri gonfi unti d'olio.

y) Le grandi Dionisie o Dionisie urbane, o cittadine (diovicia ueyada, o 4. év dote, D. ta megala, D. ta en asteî), avevano luogo nel mese elafebolione; duravano sei giorni, e poichè cadevano in sull’aprirsi della primavera, quando yeniva ripigliata la navigazione del mare, la quale

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nei mesi invernali rimaneva affatto sospesa, l’af- fluenza dei forestieri, dalle isole, specialmente dell'Egeo, e dai vari porti della penisola, in Atene era straordinariamente grande, tanto più che allora. appunto gli alleati recavano ad Atene i loro tributi. Queste pure, come in generale tutte le altre feste, erano celebrate con solenni sacrifizi, e suntuose processioni, nelle quali veniva portata da un tempio. all’altro per le vie della città la statua di Dioniso. Tra i festeggiamenti tenevano un posto precipuo cori di fanciulli e di uomini adulti, e la storia let- teraria della Grecia ricorda i celebri ditirambi, com- ponimenti lirici e musicali, composti appunto per queste feste da Laso di Ermione, da Simonide di Ceo, da Pindaro, da altri insigni poeti compositori. Da tali cori appunto venne poi svolgendosi la tra- gedia, con Tespi, Pratina e Cherilo, portata in se- guito alla sua maggior perfezione dal genio de’ tre grandi tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide. Ee rappresentazioni dramatiche diventarono poscia l’at- trattiva maggiore delle grandi Dionisie, e per esse venne costruito il teatro detto appunto di Dio- niso, al sud dell’Acropoli, il primo teatro che sor- gesse sotto il limpido cielo di Grecia, capace di 30.000 spettatori, sul quale si modellarono, più o meno, tutti i successivi teatri dell’antico mondo greco e romano.

ò) Le Antesterie (’Av3sotijoia, Anthestéria), che prendevano il nome dal mese antesterione, in cui venivano celebrate, possono dirsi la festa dei

Antichità sacre 17I

vini. I tre giorni infatti, quanti essa durava, erano denominati il primo la ‘pitegia’ (mudoryia, pithoi- ghia), ossia dell’apertura delle botti o vasi vinari; il secondo le ‘choe (oî 7088, hoi choes), ossia i boc- cali 0 tazze ricolme, dei vini nuovi, che venivano lietamente vuotate .a gara; il terzo i ‘“chitri’ (qg0- root, chytrot), ossia le pentole o i vasi di creta, coi quali si facevano libazioni ad Ermes (Mercurio) e alle anime de’ trapassati. Forse da principio il carattere di queste feste era affatto diverso, ed esse erano consacrate alle divinità ctonie o sotterranee, e avevano perciò impronta triste e malinconica; e le libazioni (youi, poi g6es, chodi, choes) erano li- bazioni funebri, e i vasi di creta, urne cinerarie. O forse anche erano in origine feste con cerimonie di scongiuro contro spiriti malvagi, che si credeva nocessero alla vegetazione. Ma il tempo le trasformò in seguito in liete feste de’ vini e de’ fiori, con un'allegra processione, nel primo giorno, in cui un'antica statua di Dioniso veniva portata al Leneo. Caratteristico in queste feste era il sacrifizio nel quale venivano simboleggiati gli sponsali della mo- glie dell’arconte re col dio Dioniso. Essa era detta perciò la regina ( facikiooa, basilissa) ed era accom- pagnata da quattordici vecchie matrone (vegagai, cherardî) nel Leneo.

2 210). Altra festa ricorrente ogni anno, nel mese targelione, erano le Targelie” (OaonA ta, Thar- ghélia), denominate dal nome del mese in cui ave- vano luogo. Erano in onore di Apollo e di Demetra,

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a cui si rendevano grazie per i frutti d’ ogni specie raccolti nei campi, e per intercedere la fertilità delle terre coltivate. In esse veniva. anche comme morata la fortunata impresa di Teseo contro Creta. per liberare la sua città dal vergognoso tributo, cui. era stata astretta, di mandare in sacrifizio al Mino- tauro sette giovanetti e sette donzelle ateniesi. La città per tali feste veniva tutta ripulita mate rialmente, e avevano poi luogo sacre abluzioni sim- boliche e sacri lavacri, e sacrifizi di purificazione, dapprima di un uomo e di una donna, che po tavano al collo una corona di fichi secchi, rispetti» vamente neri e bianchi; ma questi sacrifizi uman furono poi aboliti. Una solenne ambasceria, o rap: presentanza cittadina (Jemoia, freoria), veniva spe dita sulla sacra nave a Delo, per rendersi propizio Apollo, che si credeva nato appunto in Delo nel settimo giorno del mese targelione. Anche in qu ste feste cori di giovanetti rallegravano i sacrifi f) Al mito della partenza e del ritorno di Teseo da Creta si connettevano altre tre feste ateniesi Le Pianepsie ? (tà I/vavéyia, fa Pyanépsia), la festa delle fave, che si facevano cuocere in pentole I giorno 7 del mese pianepsione; le Oscoforie (x "Oogopioia, fa Oschophoria), del medesimo giorno, nelle quali si portavano da giovani da un tempid di Dioniso al Falero sul mare e viceversa tralci di vite con grappoli; e nei giorni successivi le Tese (tà Onozta, ta Theseia), di cui poco sappiamb. y) Parecchie altre feste di minore importanza @

Antichità sacre 173 assai più modeste venivano annualmente celebrate in Atene, come le Plinterie? (rà IMuvdyowa, ta Plyn- ihéria), nelle quali si lavava sulla spiaggia del mare la statua in legno di Atena conservata nell’ Eretteo; le ‘Schiroforie’ (tà Zxiga, ta Skira), o feste del- l'ombrello bianco (ori0ov, skir0z) in onore della stessa Atena; le Arreforie’ (rà ‘Aoongpoora, fa Ar- rhephoria), in cui alcune vergini ateniesi dette arre- fore’ portavano di notte certe cose sacre miste- riose in un tempio di Afrodite (Venere) e ne ri- portavano altre, medesimamente a loro ignote; le Bufonie’ (rà Bovgovria, ta Bouphbnta), dedicate a Zeus Polieo cioè protettore della sr64t5 (polis città). Infine ricordiamo le ‘Sinechie’ (rà Zvvoima, la Synoi- kia), in commemorazione della riunione dei vari comuni o demi, dispersi per l’ Attica, in una sola città, che fu Atene, fatta da Teseo e detta il si- necismo” (cuvonuonòs, synoikismbs).

% 22. LE FESTE DI SPARTA. Più parca assai di Atene e nel numero e nella pompa delle sue feste fu Sparta, dove, secondo l'indole seria e se- vera della popolazione, anche le solennità religiose avevano carattere semplice e poco sfarzoso.

La festa principale era quella delle ‘Carnee’ (rà Kaovewa, ta Kirneia), celebrata anche in pa- recchie altre città e Stati dorici, quali Cirene, Si- cione, Sibari, colonie fondate dai Dori. In queste feste pare fossero commemorati i tempi della con- quista dorica del Peloponneso, giacchè i sacrifizi religiosi che vi si celebravano erano accompagnati

sar

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da festeggiamenti di carattere militare e guerresco; quali corse e danze di giovani armati in pieno assetto di guerra. Duravano nove giorni e cadevano alla fine del mese Spartano carneio, dal quale prendevano anche il nome, corrispondente al me- tageitnione ateniese. Erano consacrate ad Apollo Carneio (Hagyetog, Karneios) e allietate da con- certi musicali e da concorsi di cori lirici. Questi ultimi furono resi celebri dai componimenti di Ter- pandro di Lesbo, geniale poeta lirico, il quale nelle feste dell’Olimpiade 262 (676 a. C.) fissò le norme che vennero poi costantemente osservate in seguito per siffatte gare o concorsi musicali.

% 23. Altre feste assai antiche e notevoli furono. le ‘Giacintie’ (rà ‘Yaxiviia, ta Hyakinthia), celebrate in Amicle (AuivAa,, Amyklai), piccola città a circa venti stadi a sud di Sparta. Avevano luogo nel mese ecatombeo spartano (pressa poco il mese d’egual nome ateniese). Vi si commemorava ] morte del leggendario giovinetto Giacinto, ucciso per errore da Apollo nel giuoco del disco. Dura- vano tre giorni: nel secondo una processione, con grande concorso popolo e col canto solenne e grave di peani in onore del Dio, percorreva le vie del paese. Ad essa tenevano dietro gare ginnastiche, con corse di carri, con danze mimiche, rappresen- tative, e coi soliti sacrifizi e banchetti.

Ogni altra città greca aveva le sue feste partico lari; così Argo celebrava solennemente le feste ‘Eree? inonore di Era (Giunone) e le ‘Ecatombee’; Sicione

Antichità sacre 175

festeggiava le Teoxenie? e le Ermee' in onore di Ermes (Mercurio); Tebe le Eraclee’ in onore di Eracles (Ercole); l’Arcadia le ‘Licee’; Megara le ‘Dioclee’, ecc.

% 24. LE GRANDI FESTE NAZIONALI. Oltre alle feste che potremo dire locali o cittadine, proprie di singole città, v’erano quattro grandi feste, cioè le ‘Olimpie’, le ‘Pitiche’, le Nemee” e le Istmi- che’, alle quali partecipava tutta intera la nazione ellenica, e che perciò potremo dire feste nazionali. Esse anzi contribuirono non poco a tener sempre vivo e desto il sentimento nazionale unitario fra tutte le diverse stirpi, il quale attraverso le varie vicende storiche e al gran frazionamento degli Stati greci si sarebbe forse aftievolito o perduto per ef- fetto delle loro rivalità e guerre intestine continue. A queste feste prendevano parte i Greci tutti di ogni regione della penisola, nonchè quelli delle più lon- tane colonie dell’Asia Minore, della Magna Grecia, della Sicilia e di Cirene, Gli stranieri potevano as- sistervi come spettatori, ma ai festeggiamenti e alle gare non era lecito partecipare se non a chi fosse di schietta origine greca.

Affinchè tutti i Greci potessero liberamente in- tervenire ad esse senza correre pericoli e le vie fossero sicure, veniva proclamata e solennemente annunciata ovunque da appositi araldi (67r0ovdogpdooi, spondophoroi) la così detta tregua di Dio (6z70v- dai, o sxeyergia, spondai o ekecheiria), vale a diré una generale sospensione delle ostilità o guerre

176 Parte terza

che mai vi avessero fra città e città, fra Stato e Stato, tregua che durava da alcuni giorni prima che le. feste incominciassero fino ad alcuni giorni dopo. che erano finite,

Le aggressioni o violenze commesse durante questa tregua sacra contro coloro che accorrevano alle feste, o l’impedimento posto al loro intervento, erano considerate quale empietà sommamente grave, e gli Stati, entro i confini de’ quali fossero eventualmente. accadute, erano obbligati a ricercare e punire se- veramente i colpevoli, e a compensare i danni arrecati.

L’origine di tali feste nazionali risaliva a tempi antichissimi e si perdeva nelle nebbie dell’età mi- tica. La leggenda popolare ne attribuiva la prima istituzione a qualche Dio o qualche eroe. Così le Olimpie dicevansi fondate da Eracles (Ercole) e rese poi più suntuose da Pelope; Strabone invece ne ascrive l’istituzione a Oxilo, re degli Etoli, che al tempo dell’invasione de’ Dori penetrò con essi nel Peloponneso e occupò quella parte dell’Elide ove era appunto la pianura di Olimpia. Le Nemee si credeva fossero state istituite dai sette eroi ar- givi che mossero, con Adrasto, all'assedio di Tebe contro il re Eteocle, e istituite in onore del giovi- netto Archemoro figlio del nemeo Licurgo. L’isti- tuzione delle feste Istmiche era attribuita a Posei- done (Nettuno), o a Teseo; ad Apollo l’istituzione delle feste Pitiche.

Da principio ciascuna di esse non ebbe proba-

Antichità sacre 177

bilmente che un’ importanza affatto locale. Ma in seguito la rinomanza loro si andò sempre più allar- vando e si diffuse a mano a mano per tutto il paese, in modo che i Greci tutti, come si è detto, vi par- tecipavano, e numerosi vi accorrevano ad assistere di qualsiasi stirpe essi fossero.

Le Olimpie e le Pitiche cadevano ad intervalli di quattro anni, le Nemee e le Istmiche di due anni; cioè quelle venivano celebrate ogni quinto anno, queste ogni terzo; ma in modo che o l’una o l’altra avesse luogo ogni anno, Duravano parecchi giorni ciascuna; erano feste religiose e civili nello stesso tempo, poichè accanto ai sacrifizi solenni e alle processioni religiose v’erano pure gare ginnastiche e concorsi sportivi o musicali di varia specie; faremo torto ai Greci se riterremo che assai più queste che quelle attirassero gli spettatori da tutto il mondo greco, e destassero l’ interesse e l’ entu- siasmo nel pubblico numeroso e vario che vi as- sisteva.

Chi prendeva parte alle gare, oltrechè di schietta nazionalità greca, doveva essere incensurato per la condotta morale e civile; a chi avesse subito condanna per omicidio (évays, enaghés), o per empietà (doef)g, asebes), o per altra colpa disono- rante (driquos, dlimos), era vietato parteciparvi. Gli stranieri (fdofapoi, bérbaroi) e i forestieri, me- teci o perieci, che non godessero la piena cittadi- nanza di qualche Stato, non erano ammessi alle feste che come semplici spettatori. Questa gelosa

12 INAMA,

178 Parte terza

cura appunto di tener lontani da esse tutti quelli che non fossero schiettamente greci dava loro il carattere di feste nazionali elleniche.

% 25. Le OLImpIE (tà 0Avuma, fa Olympia). Olimpia era un'estesa spianata ai piedi del monte Olimpo nell’ Elide, dove il piccolo torrente Cladeo mette nel fiume Alfeo. Quivi sorgeva anticamente la città di Pisa e quivi tenevansi le feste in onore di Zeus, che presero il nome dal luogo. I Pisati ne avevano da principio la direzione e godevano naturalmente i vantaggi che da esse derivavano. Ma dopochè la città loro venne distrutta nel 572 a. C. dagli Elei, a questi passò la direzione, e. questi non permisero più che la città di Pisa fosse ricostruita, o che altra ne sorgesse invece di essa, cosicchè il luogo rimase d’ allora in poi deserto e disabitato. Solo ogni quinto anno, nei giorni delle feste, ribrulicava di gente varia, lieta, affaccendata, curiosa, e la vita vi ferveva animata da sentimenti religiosi e patriottici; per ricadere poi, dopo pochi giorni, per altri quattro anni nel silenzio di prima.

Nella pianura v'era il bosco Altis (447) con- sacrato a Zeus e intorno ad esso un largo tratto di terreno sacro (il T#usvos, fémenos). Entro questo era stato eretto il grandioso tempio dedicato ap- punto a Zeus Olimpico, reso celebre per la statua colossale, d’oro e d’avorio, del Dio, capolavoro di Fidia; v’ erano il grande altare di lui, il tempio consacrato ad Era (Giunone), detto l’Ereio (“Hotoy,. Héraion), e quello di Demetra (Cerere) e altri an-

Antichità sacre 179 cora, e molti altari, e ricchi e suntuosi edifizi, che aggiungevano splendore e decoro al luogo. Presso al sacro recinto v’ era lo stadio, per le corse, l' ippodromo e il ginnasio, per le gare ginnastiche; inoltre i così detti tesori (976avooi, resazrdî), specie di tempietti o di edicole, che i singoli Stati della Grecia o principi e tiranni avevano fatto costruire per deporvi le ricche offerte e i doni preziosi da loro inviati al Dio, e i ricordi delle vittorie ripor- tate nelle gare e nei concorsi. A centinaia sor- gevano tutto all’intorno le statue dei vincitori e i tripodi da loro o dai loro concittadini posti a per- petuo ricordo della vittoria ottenuta.

Il mese, nel quale avevano luogo le feste Olim- piche, era detto mese sacro (iecounvia, hieromenia): erano tenute nel plenilunio dopo il solstizio d’estate, quindi tra il giugno e il luglio, e duravano dai cinque ai sette giorni.

Da modesti inizi vennero assumendo sempre mag- gior importanza, per opera di Ifito, re d’ Elide, e dei re di Sparta. Nel 776 a. C., quando Corebo eleo riportò una segnalata vittoria alla corsa (e si pretendeva che d’allora in poi i giuochi Olimpici fossero stati celebrati senza interruzione), incomin- ciarono, a quanto pare, i sacerdoti elei a tenere un registro regolare di tutti i vincitori delle gare, e per questi registri appunto fu possibile, in seguito, quando le feste Olimpiche diventarono celeberrime fra tutte le feste greche, far adottare da tutti, per designare la successione e la data degli avvenimenti

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storici, l’éra cronologica delle Olimpiadi, incomir ciando appunto a contare da quella della vittoria Corebo, Il primo storico greco che adottò nelle operi sue quest'éra fu Teopompo (IV secolo a. C.).

Da principio non prendevano parte alle gare Olim: piche che le genti vicine del Peloponneso; ma dall: 308 Olimpiade in poi (650 a. C.) vi parteciparon quelle di tutta intera la penisola greca, e dopo la 402 (610 a. C.) anche quelle delle colonie a occi- dente e a oriente di essa. Quasi tutte le città grech mandavano in Olimpia loro rappresentanze ufficial (Peompiat, theoriaî). i

Il periodo più fiorente delle feste Olimpiche fi nel VI e V secolo; con la guerra del Peloponneso il loro lustro andò alquanto scemando. Continua- rono bensì ad essere celebrate anche nei secoli suc- cessivi, ora con maggiore, ora con minor frequenza di spettatori, ma sempre più modestamente.

Il diffondersi poi e il prevalere del Cristianesimo, nei secoli dell'impero, e le mutate condizioni po-. litiche e sociali della Grecia tolsero loro via via e il carattere religioso e l’ interesse sportivo; finchè esse vennero del tutto soppresse, insieme con le ‘altre feste nazionali, dall’ imperatore Teodosio. L’ultima Olimpiade segnata nel lungo registro fu. la 293% (394 d. C.). Trent'anni più tardi Teodosio II fece incendiare il tempio pagano di Zeus, e la sua rovina divenne compiuta dopo i disastrosi terre- moti del 522 e del 5sr.

La parte principale religiosa della festa era co-

Antichità sacre I8I

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stituita dai solenni sacrifizi a Zeus (fovdvoia, bow- llysia) e ad altre divinità e da sfarzose processioni. Sacrifizi particolari celebravano tutte le genti e le singole città greche, per mezzo delle loro rappre- sentanze; ma per il pubblico la più interessante attrattiva erano le gare sportive.

Da principio non v'era che la gara della corsa:a piedi (d0070g, dromos), considerata come esercizio ginnastico di singolare importanza pratica. Aveva luogo nello stadio (ot@diov, stidion), lungo 600 piedi olimpici, pari press’ a poco a m. 450. Nel- l’Olimpiade 148 (724 a. C.) venne aggiunta la corsa doppia (diavZos, diarlos), vale a dire di andata e ritorno da un’ estremità all’altra dello stadio; nella successiva Olimp. 158 (720) la corsa lunga (ddAtyog dpduos, dblichos d.), che consisteva nel percorrere sette volte lo stadio. Vennero aggiunti successiva- mente tutti gli altri esercizi ginnastici: la lotta (rà, pale), nell’Olimp. 182 (712), e il getto del giavellotto (axovtior, akbntion) e del disco (dioxos, diskos), piatto di metallo del peso di 2 kg. circa, e il salto (dAua, kalra), reso più difficile e più lungo con l’uso degli ‘alteri’ (&Arj)0es, halteres), pesanti manubri di ferro, coi quali il saltatore, accompa- gnando lo slancio delle gambe con l'oscillazione ‘e la distesa delle braccia, riusciva a spiccare salti di straordinaria lunghezza (').

(5) Simonide espresse in un pentametro i cinque esercizi nrin- cipali delle garè ginnastiche

Gipa, modwnernv (podokeien], Sicxoy (diskon), Gxovra fakonta), nalny (palen).

Parte terza

Si aggiunse poi la gara del ‘pentatlo’ (sevra- UAov, pentathlon), esercizio complessivo di cinque prove (corsa, disco, salto, giavellotto e lotta), e verso l’Olimp. 23% (688) anche il pugilato (avywj)y byghmé). Nella 25% (680) furono introdotte le corse de’ carri a quattro cavalli, aggiogati tutti quattro a pari, due al timone e due ai lati di questo (irzrow tergiov doduos, 0 tédoutov dioua, hippon teleion di, téthrippon harma), e quindi, nell’Olimp. 338 (648), il ‘pancrazio’ (srayuoduov, pantrition)i, aspro e pe- ricoloso esercizio di lotta e pugilato combinati in- sieme; e la corsa a cavallo libero (#r1r0g xéAnss hippos keles), la corsa di corridori armati, ossia degli: ‘opliti’ (6r70v deduog, hoplon d. + Olimp. 652 [520]), la corsa del carro tirato da due mule (d70)vn, aperes! Olimp. 708 [500]), e del carro a due cavalli (inz@w. TedElOv ovvwoig, h. t. synoris: Olimp. 938 [408]); gare ginnastiche di giovanetti; e così via via andò sempre più aumentando il numero degli spettacoli. che maggiormente attiravano la curiosità e l’inte- resse del pubblico.

Gli ordinatori e direttori delle feste (diardevat ta ’ORbusa, diatithenai ta Olimpia) erano detti giudici dei Greci (‘ERZavodixa, Rana), ed. erano scelti fra gli Elei. Dapprima non v'era che un solo giudice, ma dopo l’Olimp. 508 (577) fu- rono due, e più tardi, con lo sviluppo sempre mag- giore che presero le gare, aumentò il numero loro fino a dieci o dodici, quanti furono a cominciare dall’Olimp. 1082 (348). Erano eletti, non sappiamo.

Antichità sacre 183

in qual modo, al principio d’ogni Olimpiade, e ri- manevano quindi in carica quattro anni, fino al compimento dell’ opera loro al chiudersi delle feste.

Premio ai vincitori era una semplice ghirlanda, formata con ramoscelli dell’ ulivo selvatico (é4aia vaRhiotepavos, elaia kallistéphanos), che era presso l’altare delle Ninfe, nel bosco sacro dell’Altis. Per le corse de’ carri e de’ cavalli (irmmixoi dyoves, hippi- kot agones) il premio era conferito non a chi li guidava, ma al proprietario de’ cavalli, per inco- raggiare in tal modo l’allevamento delle razze mi- gliori. Con gentile rituale simbolico era prescritto che i ramoscelli d’ulivo venissero recisi da un in- nocente fanciullo, che non fosse orfano di padre di madre, Alla ghirlanda si aggiungeva un ramo di palma, che il vincitore recava in mano. Ma compenso ben maggiore del premio materiale era pel vincitore l’entusiastico applauso del pub- blico, dei parenti, degli amici, dei concittadini che andavano gloriosi di lui. Il suo nome veniva solen- nemente bandito dall’araldo stesso delle gare, in- sieme con quello del padre e della sua città, correva famoso sulle labbra di tutti ed era ripetuto per tutta la Grecia. Con sacrifizi e lieti banchetti egli veniva festeggiato dagli amici e dai compatrioti in Olimpia stessa; il suo ritorno in patria era un vero trionfo, chè quivi lo attendevano nuove feste, nuovi banchetti e sacrifizi e lodi entusiastiche, con canti di cori e danze. I più celebri compositori musicali e poeti del tempo si prestavano a gara a celebrarlo,

184 Parte terza rete Se, n vi.

Simonide di Ceo, Pindaro, Bacchilide, e vari altri insigni poeti composero odi ‘epinicie’ (&m- vima, epinikia) pei vincitori delle gare Olimpiche, come pure per quelle delle altre feste nazionali; e.coi versi immortali di essi giunse fino a noi il nome di parecchi di questi vincitori (VA vUIbVINOL, Olympibnikoi vincitori in Olimpia ’). Gli stessi vin- citori 0 più spesso le loro città facevano poi eri- gere nel sacro recinto dell’Altis, in ringraziamento a Zeus e in perpetua memoria della gara vinta, Statue di marmo o di bronzo o altri monumenti, e in tal modo Olimpia divenne un vero museo ric- chissimo di opere pregevoli per materia e per la- voro artistico.

Alle gare sportive si aggiunsero col tempo anche gare letterarie, in quanto poeti andavano a Olimpia a declamare i loro nuovi componimenti, oratori e uomini politici a pronunciarvi eloquenti ed ela- borati discorsi (émdeiées, epideixeis), in cui erano celebrate le gloriose imprese degli avi (ravnyvooi Abyor, "Olvummoè Adyor, paneghyrikoi, Olympikoi logoi), storici a leggervi brani delle opere loro. Così venivano destati nobili sentimenti patriottici, e la cultura e l’amore agli studi si diffondeva da Olimpia per tutto il paese.

26. Simili in parte, in parte diverse dalle Olim- piche erano le feste Pitiche (tà India, ta Pythia), che avevano luogo nel terzo anno d’ogni Olimpiade. Istituite nel 586 a. C., erano celebrate in onore di Apollo, in una pianura a’ piedi del monte Parnaso,

Antichità sacre 185

presso l’antica città di Crisa (Kotoa, Arisa), poco distante dall’oracolo di Delfo, nella Focide. I Crisei ne avevano dapprima la direzione; ma dopochè la loro città fu distrutta, nell’Olimp. 28,3 (586 a. C.), essa passò agli Amfizioni, che nominavano un ap- posito direttore o curatore (&mpueAyt)s, epimeletés). Cadevano nel mese bucazio, che pare corrispon- desse al nostro agosto-settembre, e duravano pa- recchi giorni. Era commemorato in esse il mito dell’uccisione del serpente Pitone (Ili90v, Python), per mano d’Apollo, e dal serpente presero il nome e il luogo stesso e le feste.

Quivi pure la pianura per largo tratto era consi- derata come sacra e, secondo il rito, era vietato metterla a coltura. Intorno al tempio famoso di Apollo erano sorti, come in Olimpia, parecchi altri tempî e tempietti ed edicole, i cosidetti tesori, ed edifizi vari, fatti costruire da diverse città e Stati della Grecia, per accogliervi le loro rappresentanze e per deporvi i propri doni. Ai consueti sacrifizi religiosi e alle consuete processioni di carattere sacro si aggiungevano in queste feste delfiche gare mu- sicali (dy@ves uovowmoi, agones musikoi), in onore del Dio duce delle Muse (Movoayérng, Mousaghetes), ispiratrici d’ogni arte bella, e Dio della cetra. Esse gare formavano l’ attrattiva migliore della festa, e le davano una gentile impronta di civiltà e cultura. In seguito anche nelle feste Pitiche, quando l’amore ad ogni specie di sport era diventato generale e assai vivo in tutta la Grecia, furono introdotte le

186 Parte terza

gare ginnastiche (dv©Oves yvuvwoi, a. ghymnikdi) e corse di cavalli (dy®ores inmuoi, a. hippikoi), per cui v’ era apposito ippodromo, le quali tuttavia non acquistarono mai in Delfo l’importanza che avevano in Olimpia. Maggiore sviluppo vi presero invece i trattenimenti letterari, con conferenze, letture, discorsi epidittici (&mòeifew, edideixeis).

Premio al vincitore de’ concorsi era quivi pure una semplice ghirlanda d’ alloro, albero sacro ad Apollo, e un semplice ramo di palma. La ghirlanda era intrecciata con ramoscelli recisi, con rito gen- tile analogo a quello seguito in Olimpia, da un antico alloro sacro, venerato nella lontana valle di Tempe, in Tessaglia.

Le feste Pitiche vennero soppresse, insieme con le Olimpiche, dall’imperatore Teodosio nel 394 d. €.

3 27. Le feste Nemee (rd Néuea, ta Némea), cadevano nel secondo e nel quarto anno, le Istmiche (tà Iodwa, fa Îstkmia) nel primo è nel terzo d’ogni Olimpiade.

Le Nemee prendevano il nome dalla valle ove si celebravano, tra le città di Cleone e di Fliunte nell’Argolide, presso il tempio di Zeus Nemeo (Zevg Negusatos, 4. Nemeaios), a cui erano dedicate. Esse pure comprendevano gare sportive e musicali (dy@v pupivinds, inmmuds, novomds, agòn ghymniîkos, hippi- kòs; mousikòs). Ordinatori delle feste erano gli Ar- givi; premio, una corona d’appio (oé4wvov, selizor) o d’edera (x1006g, issés), col solito ramo di palma.

Le Istmiche, istituite, secondo la tradizione, da

Antichità sacre 187

Teseo, ma storicamente nel 582 a. C., in onore di Poseidone (Nettuno), erano celebrate in un bosco sacro a questo dio (Iocewd4rwov téuevog, Poseidanion témenos), sull’ istmo di Corinto. Ai Corintii n’era affidata la direzione. Consistevano esse pure in sa- crifizi, processioni, gare sportive, festeggiamenti vari, per attirare quanto maggior numero di spet- tatori fosse possibile. V’ intervenivano rappresen- tanze ufficiali di diverse città, e fra tutte ordina- riamente si distingueva per numero di rappresen- tanti e per sfarzo di apparati quella di Atene. Premio ai vincitori una ghirlanda d’appio, più tardi di pino (mitus, fitys) col consueto ramo di palma.

IV.

ANTICHITÀ PRIVATE

LA FAMIGLIA.

&1. La famiglia era costituita in Grecia, fino dai tempi omerici, sul principio della monogamia, su basi saldamente morali e ben disciplinate. Essa formò il primo fondamento dello Stato; può anzi dirsi che questo non fosse altro che un ampliamento della famiglia, un complesso di famiglie riunite insieme e governate con le norme stesse onde era retta ogni singola famiglia. Parlando della famiglia intendiamo sempre di quella formata da cittadini liberi.

Capo della famiglia era il padre o il marito; ma poichè l’uomo in Grecia era occupato nelle fac- cende amministrative e politiche della città, e molta parte della sua giornata la doveva passare fuori di casa, così effettivamente la direzione di questa spet- tava alla madre o alla moglie. La donna greca, esclusa per legge dagli affari politici e dalle pub- bliche faccende, era invece signora e padrona entro le pareti domestiche. La pulizia della casa, la di- rezione interna della famiglia spettavano interamente ad essa; toccava a lei provvedere agli alimenti, alle vesti, all'arredamento della casa, all’ allevamento de’ figli.

192 Parte quarta e e RR OE E PE A

% 2. Quando nasceva un bambino, la porta di casa veniva adornata, in segno di gioia e di festa, con ghirlande di rami d’ ulivo, se il neonato era maschio, con bianche bende di lana, se femmina. Dopo cinque o sette o dieci giorni dalla nascita, se il padre riconosceva per suo il figliuolo, aveva luogo la cerimonia religiosa della ‘lustrazione ‘a che consisteva nel portare correndo (dupidoonia, amphidromia) il neonato in giro intorno all’altare domestico, che non mancava in nessuna casa. Dopo, di regola nel decimo giorno dalla nascita, era ce- lebrato un sacrifizio (tiv derdtpv WHiew, o Ééotidy, ten dekaten thyein, hestién), detto decate’; alla lieta festa erano invitati i parenti e gli amici più intimi della famiglia, e allora veniva imposto il nome (Féoda: toivoua, thesthai tommoma=t0 onoma) al bambino.

% 3. I Greci non usavano, come i Romani e noi, aggiungere al nome individuale anche il nome di famiglia. Designavano le persone con un nome solo, al quale aggiungevano o il nome del padre, o il nome del demo, o comune, a cui la persona appar- teneva. Così p. es. si diceva: Tucidide (figlio) di Oloro, Demostene Alimusio (del demo Alimunte). I nomi di persona erano naturalmente, come dapper- tutto, nomi convenzionali, che per se stessi non avevamo alcun significato. I nomi personali greci sono per lo più parole composte, il cui significato etimologico riesce chiaro; così, p. es., Demostene significa ‘forza del popolo’. Ma di ciò, il più delle

Antichità private 193

volte, nella scelta del nome non si teneva conto; tuttavia avveniva talora che si badasse che il suo significato etimologico fosse di buon augurio pel bambino cui s'imponeva, come sarebbe p. es. per noi Fortunato, Felice, ecc.; ovvero che indicasse qualità fisiche e morali che si sarebbero deside- rate nel bambino (p. es. Higoov, Ewphron al- legro’), o ricordasse qualche lieto o importante av- venimento di famiglia. Ma più spesso i nomi erano scelti, senz’ altro, tra quelli degli antenati; e ogni famiglia, come da noi, dava la preferenza ad alcuni, piuttosto che ad altri, per semplice tradizione fa- miliare. Come noi scegliamo i nomi nel calendario de’ santi, gli antichi Greci li sceglievano tra gli eroi leggendari, o li derivavano da quelli delle loro numerose divinità, Al primogenito per lo più era posto il nome dell’avo paterno. L’allevamento (t00g:), 4#ophé) dei figliuoli era, fino ai sette anni, affidato alla madre e alle donne di casa. Pel nutrimento dei bambini, oltre al latte, usavasi molto il miele. La culla era per lo più un semplice cesto di vimini. I giocattoli press’ a poco quelli stessi che sono in uso da noi: palle (opatow, sphaîrai), trottole (ctodufio, stromboi), cerchi (tooyot, trochéi), dadi (dotpayalor, astràgaloi), bambole (x60at, korai), figurine di bestie, di soldati (yrAayyò- ves, dlangones), per lo più in terracotta o in le- gno, ecc. Come da noi, le madri e le bambinaie greche narravano ai bambini, per farli stare tran- quilli, racconti (40901, wy740i) maravigliosi, strani,

13 INAMA.

agg" e ie to

194 Parte quarta

o paurosi, e fole d’ogni specie. Al collo appende- vano loro amuleti (r00faoxavia, probaskimia) contro la malia, e ai bambini in fasce piccoli sonagli (rrAatayai, platagidi).

Dopo i sette anni incominciava I’ educazione, della quale per i figliuoli maschi si occupava il padre, affidandoli per lo più ad appositi maestri (raidavoroi, paidagogii ‘pedagoghi ’), scelti d’ordi- nario tra gli schiavi, che per la serietà e il senno davano maggior affidamento. Le figlie invece rima- nevano in casa con la madre e da questa venivano educate fino al momento delle nozze. La loro istru- zione, tolti casi eccezionali, si limitava semplice- mente al saper scrivere, leggere e far di conti. Ma la condizione e istruzione della donna non era uguale presso tutte le stirpi greche e le diverse città. Presso i Lesbii, a giudicare da Saffo, presso i Beoti a giudicare da Corinna, o gli Argivi da Te- lesilla, la donna godeva molto maggior libertà di condotta che altrove e riceveva più elevata cultura ed educazione letteraria. Anche la musica e il canto erano assai frequentemente insegnate alle donne, giacchè in molte feste o solennità greche troviamo in uso Cori di fanciulle, e ciò presso tutte le stirpi ; come presso tutte le stirpi la donna è considerata quale signora in casa.

% 4. Il matrimonio era presso i Greci un con- tratto, se non proprio di schietto carattere religioso nel senso nostro, posto tuttavia sotto la speciale | protezione degli Dei, ed era riguardato come co-

Antichità private 195

munione fra marito e moglie di tutto ciò che costi- tuisce la vita materiale e morale della famiglia (xowovia mavtòs toò fiiov, koinonia pantòs tou biow). I matrimoni dei figli erano per lo più combinati dai genitori, pure non prescindendo certamente dall'amore o dalla simpatia reciproca dei fidanzati. Precedeva, com’ è naturale, la promessa (éyy07, &pvinows, enghye, enghvesis), coi patti relativi alla dote (gé0vn, mo00ig, pherne, proix) della sposa. Il tempo generalmente preferito per le nozze era in Atene il mese gamelione, sacro ad Era maritale (“Hoa yapjAug, Hera gamélios, cioè protettrice delle nozze’: yduot, gamot).

Le nozze avvenivano nella casa della sposa ed erano precedute da preghiere e sacrifizi (apoyduta, nootéAeu, progimia, protéleia), con sacre e simbo- liche abluzioni (Aovrod, /0u#r4) agli Dei domestici, e a quelli che presiedevano ai matrimoni (92065 vaurnkiog, theoîs gameliois), quali, oltre ad Era, Ar- temide, Afrodite, Urano e Gea, e anche le Moire (Parche) e le Ninfe; ma innanzi tutto al sommo Zeus (Zebg térews, Z. téleios). Seguiva il banchetto nuziale, al quale interveniva la sposa, col capo ve- lato, in mezzo alle donne di casa e alle amiche in- vitate. Poscia la sposa, inghirlandata, veniva con- dotta di notte alla casa del marito, tra il corteo dei parenti e degli amici che portavano fiaccole (dada vuugpuat, dades nymphikai) e cantavano inni nuziali (buévaroi, Aymenaioi), con accompagnamento del suono di cetre e di flauti. Uno dei parenti più pros-

196 Parte quarta

simi o degli amici più intimi della famiglia era più specialmente designato per accompagnare la sposa (raodvvupos, paranymphos). Questa sulla so- glia della porta della sua nuova casa, tutta ador- nata di verdi rami e di fiori, era ricevuta e amo- revolmente accolta dalla madre dello sposo, la quale la introduceva nella stanza nuzialè, mentre gli astanti intonavano nuovi canti adatti alla circostanza (&7r1- daraua, epithalimia ‘cantati presso il talamo’).

La sposa portava seco un ordigno di metallo (gov- yetoov, phrghetron), per abbrustolire l'orzo, sim- bolo della sua nuova attività domestica. Nei due giorni successivi parenti e amici andavano a gara nel recare doni (djo0a éravtia, dora epaulia) agli sposi. La sposa veniva poscia presentata alla fratria, nella quale il marito era inscritto.

Le leggi e i costumi permettevano il divorzio.

Le case ricche,solevano fare allattare i bambini da una balia (r00gés, trophés) e, slattati, li affida- vano a una bambinaia (vir97, cui)vn, titthe, fithene), l’una e l’altra per lo più scelte tra le schiave.

% 5. L'educazione (nadia, paideia) dei fanciulli durava fin verso i sedici anni. Scuole pubbliche non verano; bensì in ogni città e in ogni villaggio, di qualche importanza, private. A queste i padri man- davano i loro figliuoli, quando non preferissero farli educare e istruire in casa. Nessun obbligo di man- dare a scuola i figli. Le lezioni non sempre erano tenute in locali chiusi; se la stagione era favorevole, spesso si tenevano all’aperto, sulle pubbliche vie,

Antichità private 197 o sulle piazze, o nei campi vicini alla città o al villaggio.

All’educazione dei fanciulli diedero molta impor- tanza i Greci fino dai tempi più antichi. Nell'/Ziade il vecchio Fenice ricorda ad Achille (IX 443) come il padre Peleo lo affidasse a lui bambino, affinchè lo rendesse abile nel dire e nel fare; ed è pure ri- cordato Chirone (XI 832) come educatore di Achille.

I metodi di educazione erano in generale molto rigidi e severi, e l’uso della sferza nella scuola assai frequente. Basterà ricordare in proposito il mi- miambo di Eronda intitolato 7 Maestro (dddoxaos, didaskalos).

L’ educazione aveva per scopo precipuo di rin- forzare e sviluppare armonicamente le facoltà tutte dello spirito e del corpo dei giovanetti, affinchè fatti adulti fossero uomini e cittadini forti, belli e probi (xadoi xayasoi, ka/di kagathéi). Bellezza e bontà nel senso più largo della parola, fisico e morale, salute e vigoria di corpo (dvdozia, andreia), onestà di vita (edogfeta, ensébeia), abilità di condotta (6@- good, sophrosyne) erano l'ideale dell'educazione greca (xaZoràdyadia, ednoopia, kalokagathia, euko- smuia). Un complesso d’insegnamenti speciali, o di di- scipline scolastiche, come noi diremmo; tendeva appunto a questo e costituiva il corso di studi (7) &yninhuwos nardzia, he enkyklios p.) dei giovani greci. Tenevano il primo posto la musica, la ginnastica, e la grammatica (s0voun), yuuvaotwi), O év sta- Aaiotog, yoanuatwi, mousiké, ghymnastiké, ta en

198 Parte quarta

palaistra, xrammatiké). V'era poi aggiunta l’arit- metica (dov9untu), sottint. réywm, arithmetikè techne). % 6. La grammatica consisteva nell’apprendere le lettere dell’alfabeto (rà yoduuarta, ta grdmmata), a leggere e a scrivere sotto la direzione di un mae- stro elementare, detto “grammatista’ (y0auuartorijs, grammatistes). Ma la parola grammatica aveva an- che un significato assai più largo, e corrispondeva a ciò che noi diciamo lettere o letteratura in gene- rale; e il grammatico (yoauuarwòs, grammatikòs) era per i Greci il nostro letterato. L'insegnamento incominciava, press’a poco come da noi, col far apprendere nello stesso tempo a leg- gere e a scrivere. Dapprima si facevano tracciare (xaodoozw, charassein) le singole lettere dell'alfabeto (rio, otOEta, yagant]joes, typoi, stoicheia, cha- rakteres) sopra tavolette spalmate di cera (mugiov,. fyzion) col mezzo di un punteruolo o stilo (yoagis,. yoapidior, yoapetov, graphis, graphidion, grapheion}. Poscia si passava a far scrivere, su pelli apposita-. mente preparate o su papiro o altro foglio, con inchiostro e con la cannuccia (xdZauos, ké/amos). A numerare e a far di conti s’insegnava dapprima. contando sulle dita, poi usando una tavoletta (dfag, abax) con pallottoline (yijpot, psephoî) mobili, so- migliante ai pallottolieri delle nostre scuole. Si pro- | cedeva quindi a fare scrivere sotto dettatura, & a far leggere i poeti, molti brani de’ quali dove- vano essere appresi e recitati a memoria (dò otò- patog déyew, arootouatigewv, apò stimatos leghein,

Antichità private 199

apostomatizein). Primo e fondamentale libro di let- tuta erano i poemi d’Omero, che potrebbero ben dirsi la Bibbia de’ Greci.

Da essi apprendevano i giovanetti le prime no- tizie della loro religione e mitologia, della loro storia più antica. Alla lettura d'Omero si accompagnava quella de’ poemi didascalici di Esiodo, e seguiva quella degli elegiaci e dei poeti detti gnomici, per- chè ricchi di sentenze (yv@pat, ghuomai) di morale, di filosotia pratica e li sapienza politica, quali So- lone, Senofane, Focilide e soprattutto Teognide.

% 7. Alla musica, come efficace mezzo educativo dello spirito, diedero i Greci in ogni tempo gran- dissima importanza; nei loro sistemi d’educazione teneva un posto precipuo. Ad essa era sempre ac- compagnato il canto (u#406, me/0s) e non di rado con questo anche la danza (00770, orchesis), vale a dire movimenti ritmici, misurati, graziosi, che dessero rilievo al suono e alla parota. Le tre arti sorelle erano da principio riunite ed esercitate sem- pre insieme; solo in seguito, verso i tempi alessan- drini, si staccarono e stettero ciascheduna da sè.

Nell’apprendere la musica e il canto i giovanetti facevano conoscenza coi migliori componimenti li- rici o melici della loro letteratura, e li imparavano in gran parte a memoria.

L’apprendimento del canto e della musica, che educava nei giovanetti il senso del ritmo (dvduòs, rhythmòs), dell'armonia, della misura, ingentiliva l'animo ed elevava lo spirito nelle più nobili re-

200 Parte quarta

gioni dell’ideale, aveva pei Greci anche un’impor- tanza pratica. La musica e il canto infatti erano indispensabile ornamento d'ogni festa religiosa o civile, pubblica o privata; a queste partecipava tutto il popolo, e accompagnava con le sue preghiere e col suo canto ogni sacrifizio ne’ tempî e sugli altari, ogni processione per le vie della città. Un'i- struzione musicale era quindi necessaria per tutti.

Strumenti fondamentali della musica greca erano il flauto (adA6g, am/és), la cetra (1m9doa, kithara) e la lira (A0a, 2yra), di ciascuno de’ quali vi ave- vano molte forme diverse,

g 8. La ginnastica era insegnata da un apposito maestro, detto ‘pedotriba’ (sradotoifing, paidotri- bes). Mirava allo sviluppo armonico e compiuto di tutto il corpo, sicchè questo fosse non solo forte, sano (js, Ayghiés), robusto, ma anche ben pro- porzionato in tutte le membra. Gli esercizi erano quindi combinati in maniera che non solo si pas- sasse gradatamente dai più semplici e facili ai più difficili e faticosi, ma che sviluppassero contempo- raneamente e in modo uniforme il torace, le brac- cia, le gambe, e dessero a tutta la persona agilità, forza (dun, rhome), e salute (wyieta, Ayghieia).

Gli esercizi ginnastici erano insegnati nelle pale- stre (madatorgai, palaistrai) o luoghi da lotta (7447, nadaiew, pale, palaiein), come dice il nome, le quali erano tenute da maestri privati. Venivano poi con- tinuati nei pubblici ginnasi (yvuvdota, gAymndsia), che presero appunto il nome loro dalla prevalenza

Antichità private 20I

che in essi aveva la ginnastica. Le palestre erano quindi frequentate solamente da fanciulli; i ginnasi invece da giovani adulti e anche da uomini ma- turi o già innanzi negli anni, giacchè v’erano eser- cizi adatti ad ogni età, e il cittadino greco non smetteva interamente mai di mantenere con essi il corpo sano, robusto, vigoroso, esercitato alla fa- tica. I ginnasi greci erano costituiti da un com- plesso di edifizi vari adatti alle singole esercitazioni; contenevano locali per spogliarsi (dr0dveouor, apo- dytérion), per ungersi con olio (ÉR@wodgéotovr, elaio- fhésion) e ampi cortili, e stadi per te corse, e stanze per i bagni |faAavetov, Aovroov, balaneion, loutron), e lunghi porticati o viali ombreggiati per passeg- giarvi, o per fermarvisi in geniali e tranquille con- versazioni tra amici. Rinomati in Atene furono i tre ginnasi dell’Accademia, del Liceo e di Cinosarghe (Axadnusia, Avxeov, Kuvécapyes, Akademeia, Ly- keion, Kyndsarghes) I ginnasi erano per lo più co- struiti fuori di città, giacchè per essi occorreva ampio e libero spazio.

Alla direzione dei ginnasi e all'insegnamento che vi s' impartiva erano preposti maestri e impiegati speciali, ciascuno dei quali era designato col nome corrispondente alle sue attribuzioni. V'era il “gin- nasiarca’ (yvuvaciaggos, ghymnastarchos), che pre- siedeva a tutto; v'era il ‘ginnasta’ (yvuvaotis, ehymnastés), il cosmeta’ (xoountig, kosmetés), il sofronista’ (c@pooviotis, sophronistés) e così via, fino agli uffici più umili degl’inservienti.

202 Parte quarta

Gli esercizi ginnastici insegnati nelle palestre e nei ginnasi erano quelli stessi che già vedemmo in uso nei concorsi ginnici delle grandi feste nazio- nali. Precipui la corsa (So6uos, dromos) di celerità e di resistenza, e il salto (@Zua, 4aZza) in lungo (andar, mbijoat, pedin, pedesai) e in alto (avado- Qew, anathorein), semplice o cogli alteri (@Zr)08g, halteres). Seguivano poi la lotta (sr4Zn, pale), il getto del disco (dioxofodia, diskobolia) e del gia- vellotto (dxortiouds, akontismos). Esclusi dalla gin- nastica educativa e riservati ai soli atleti di profes- sione erano il pugilato (srvyu), fye4mé) e il pan: crazio (sravxodtiov, pankrition).

La corsa, la lotta e qualche altro esercizio si sole- vano fare a corpo nudo o quasi nudo. Per rendere la pelle più elastica e viscida, affinchè si prestasse meno alle prese dell’avversario nella lotta, v'era l’uso di ungere il corpo con olio o altri unguenti.

% 9.— L'istruzione letteraria o superiore, come noi diciamo, non s’impartiva in pubbliche scuole, ed era riservata ai figliuoli delle famiglie più ricche o agiate, che spontaneamente aspirassero ad emer- gere sia nell’arte, sia negli studi, sia soprattutto nella vita politica, e avessero attitudini speciali d’ingegno. Artisti, filosofi, oratori o retori, come i Greci dicevano (dijto0, pl. 67r00es, rhetor, rhéto- res), che godessero grande rinomanza, diventavano maestri ad altri, e fondavano scuole private, fre- quentate più o meno da giovani discepoli. In tal modo sorsero in Atene e nelle altre colte e impor-

Antichità private 203

tanti città della Grecia scuole particolari di filosofia e soprattutto di eloquenza; in queste principal- mente i giovani venivano educati per la vita, che noi diciamo parlamentare, e politica.

Le scuole d’Isocrate, di Platone e di Aristotele, per non ricordare che i sommi, godettero in Atene grandissima fama nel secolo IV a. C. e furono frequentate da un numero assai grande di gio- vani studiosi, alcuni dei quali diventarono poi ce- lebri quasi al pari dei maestri. La ricompensa per l'insegnamento era maggiore o minore secondo la rinomanza di chi insegnava o secondo i mezzi dei discepoli. Non erano retribuite le singole le- zioni, ma veniva pattuito il prezzo per l’intero corso d'istruzione, il quale aveva alle volte la durata di parecchi anni.

% 10. Gli scHiavi (dodo, douloi), Già ve- demmo come la popolazione nella Grecia antica fosse costituita da cittadini liberi e da schiavi, e come questi ultimi formassero, per così dire, il substrato della vita dei primi. Ogni famiglia di cit- tadini aveva più di uno schiavo; quelle che ne con- tassero due soli erano considerate come di condi- zione economica, se non povera, assai ristretta. Secondo la maggiore o minor ricchezza, maggiore o minore era in ogni casa il numero degli schiavi. Essi tuttavia nella Grecia non raggiunsero mai il numero enorme che si ebbe in Roma negli ultimi tempi della repubblica e durante l'impero. Il pa- drone quando usciva di casa era per lo più ac-

204 Parte quarta

compagnato da un solo schiavo (duoé40v90g, azd- louthos ‘seguace ’), anche se ne avesse molti al ì proprio servizio. Il farsi accompagnare da più d’uno era riguardato come vanità e ambizione. Le ma- trone invece delle famiglie più agiate uscivano quasi sempre accompagnate da due o più schiave.

Agli schiavi erano assegnate, naturalmente, in casa mansioni diverse, e da queste erano anche diver- samente denominati. Così v’era lo schiavo, o la schiava addetta alla dispensa (6 cayias, $ rauia, ho tamias, he tamia), il cuoco (dyosrords, opsopoids), lo schiavo per le provviste di cucina (dyooantijs, agorastés), il coppiere (olvogdos, cinochoos), quello che doveva portare l’acqua (#d00ps00g, hvdropho- ros), il cameriere (Aagavogooos, Zasanophoros), il portinaio (9vo@ods, fkyrords), il custode dei fan» ciulli (radayoyos, paidagogis), la bambinaia (rat dionu, rità), paidiska, titthe) e così via, come press’ a poco nelle nostre case signorili. A tutti sovrastava un maestro di casa (rr9oordti)g o éritoomos, pro: states, epitropos).

V’erano schiavi conquistati in guerra ($ovoaZotar, douralotat); ma in numero di gran lunga maggiore erano quelli comperati (doyvo@rytot, arehyronetoi) sui pubblici mercati, e quelli nati in casa dai ma- trimoni fra schiavi e schiave (oîxoyevetg, cikoghe- neis).

Per lo più gli schiavi erano comperati fra’ bar- bari, e denominati dal nome del popolo donde provenivano, come p. es. il Lido Avòddg, 40 Ly

ital

Antichità private 205

dés), il Siro Zvods, ho Syròs), il Tapigio "Iarcvs, ho Iapyx}, e così via; o anche da loro qualità per- sonali, come p. es. lo svelto evdg0pos, ho éu- dromos), il biondino ($avriag, xantias), e simili.

In generale gli schiavi in Atene erano trattati molto umanamente. Quando entravano per la prima volta in casa, in segno di festa il padrone distri- buiva dolciumi e fichi; erano ammessi ai sacrifizi domestici e pubblici, nei teatri e nei tempî. In caso di persecuzione da parte dei padroni trovavano asilo, come già si è detto, nel tempio di Teseo e in altri santuari, potevano essere messi a morte, per delitti che commettessero, dal padrone senza un regolare processo giudiziario. Ma erano esclusi dai pubblici ginnasi e dai comizi del popolo. In qualche città v'era pure ogni anno una festa spe- ciale per gli schiavi, nella quale essi erano serviti a pranzo dai loro padroni, come si usava nelle feste Saturnalia di Roma. Più duramente erano trat- tati gli schiavi a Sparta e negli altri Stati dorici, e in generale dove la schiavitù era derivata dalla conquista, dall’assoggettamento cioè della popola- zione anteriore per parte di nuove genti conquista- trici sopravvenute, come appunto era accaduto a Sparta cogli Iloti, nella Tessaglia coi Penesti, e in altre regioni della Grecia.

206 Parte quarta

La Casa (i) oòxia, he oîkia) E L'ARREDAMENTO (tà #msda, oxebn, ta épipla, ta skeue).

% II. Le case greche non erano certamente tutte uguali fra loro; differenze è naturale che ve ne fos- sero,. sia nelle dimensioni, sia nel modo di costru- zione; fra le case de’ poveri e quelle de’ ricchi, fra le case di campagna, dove lo spazio sovrabbon- dava, e quelle di città, che spesso erano assai vi- cine tra loro e addossate le une alle altre. Giacchè i primi centri di abitazione (xr6vrg, po/eis) sorsero per lo più sulle alture (dx00srdAe1g, ckropoleis), dove era bensì più facile la difesa, e maggiore la sicu- rezza contro eventuali nemici, ma dove lo spazio era ristretto e il terreno disuguale. Tuttavia la casa greca ebbe un tipo suo proprio, fondamentale, co- mune pressa poco a tutte le case delle famiglie agiate o ricche; e questo tipo rimase su per giù sempre uguale dai tempi antichi micenei e omerici fino agli ultimi secoli dell’Ellenismo. i

La forma originaria e primitiva dell’abitazione, così in Grecia come in Italia, fu quella della ca- panna rotonda, intrecciata e coperta di rami e fo- gliame, spalmata di fango e di creta. La forma di certe urne funerarie, come fors’anche le grandi è antichissime tombe a cupola, dette tesori, di Mi. cene, d’Orcomeno, ecc., delle più remote età greche, rispecchiano ancora nelle forme loro la capanna primitiva. Ma già nei tempi micenei l’arte di co-

Antichità private 207

struire in muratura e in pietra era progredita assai, come possiamo vedere dai ruderi grandiosi e im- ponenti dei palazzi principeschi di Micene, di Ti- rinto, di Cnosso e Festo in Creta. Con l’estinguersi o il decadere della civiltà micenea, anche l’arte del costruire in Grecia subì un notevole regresso. Solo dopo lunghi secoli, ai tempi alessandrini, essa ri- sorse ancora splendida e fiorente nella costruzione delle nuove reggie pari a quelle dei più lontani se- coli micenei.

La casa greca, così in città come in campagna, constava, di regola, di due parti distinte: un cot- tile recinto da muro (ad41), add) sdeorajs O Soxior, aulé, a. euerkés, herkion), e la casa propriamente detta (oÎos o u#yaoor, cikos, mégaron). Questa non s'inalzava che di un piano solo, al di sopra del piano terreno, Solo relativamente tardi, dopo la guerra del Peloponneso, quando in molte città la popola- zione era assai aumentata, si costruirono case a due o più piani. V’ erano anche, dapprima certamente in numero limitato, case con due cortili, uno nella parte anteriore, l’altro nella posteriore, uniti da un andito con una porta, la quale dal posto che oc- cupava tra essi veniva detta uécavios (mésaulos), che significa appunto tra due cortili.

Dalla strada pubblica si entrava per la porta d’in- gresso principale, a due battenti (%0@ abievos, O semplicemente adZetog, o udAzia; #ioat dAides, thyra duleios, auleia; thyrai diklides), nel cortile (adA)). I due battenti avevano internamente un ca-

208 Parte quarta

tenaccio (uoyA06c, mocklos), esternamente un cam- panello (6drrtoov, rZoptron) o una maniglia (&t0rra- oto, epispastér). Nei tempi più antichi si spiega- vano assai spesso in fuori, ciò che costituiva un grave inciampo alla viabilità; poi si provvide a farli spiegare verso l’interno. La soglia della porta (oddòs abiews, oudòs d.) era per lo più di pietra.

Il cortile, presso la porta d’ingresso, aveva tal- volta internamente una specie di atrio coperto (3r96- #v00v, td nQ0Ivoa, proòlhyron, ta prothyra), dove, nelle case signorili, stava il portinaio (#v0w90g, thyroros). Il cortile era ordinariamente recinto sui due lati laterali, o anche su tre lati, da un porti- cato coperto (aldovoa, in Omero m00ot6a, dithousa, prostoa), sia per poter attraversarlo al riparo dai raggi cocenti del sole, o dalla pioggia, sia per ri- porvi oggetti che non dovessero essere esposti ai danni delle intemperie. Il porticato era sostenuto da pali, o colonne, per lo più di legno. Entro que- sto porticato stavano pure, eventualmente, le stalle per i cavalli e le rimesse per i carri.

Innanzi alla porta di casa erano collocate non di rado statue o erme sacre, rappresentanti Apollo, Ermes (Mercurio) o divinità familiari. Sul piede- stallo o colonnetta (oré4n, stele) erano scritti o scol- piti motti o sentenze di buon augurio o di gentile saluto a chi entrava. In mezzo al cortile era, di solito, l’ altare di Zeus familiare (Zeòds éoxetos, herkeios) o di Apollo paterno ArmdAi@0v srato®og, Apollon patroos).

Antichità private 209

Dal cortile passava nella casa propriamente detta, la quale aveva una grande sala (meyagor, mégaron) centrale, col soffitto orizzontale, sostenuto da colonne, per lo più di legno, poggiate su base di pietra, talora tutte di pietra. Era questa la sala di riunione della famiglia, con entro il sacro altare domestico (&otia, Restia), che in molte case serviva anche da focolare per cuocervi i cibi. Ma nelle case signorili la cucina (6xrrd&wwoy, hoptdnion) era distinta e separata dalle altre parti, col proprio focolare (goyloa, eschara) per cuocere e il camino pel fumo (xarvodéy, kapnodoche); mentre nella grande sala il fumo saliva libero e usciva da eventuali aperture del soffitto.

Intorno alla grande sala v’erano le stanze da dor- mire (#dZauo, doudria, oMjuata, thilamoi, do- mdtia, oikémata). L'appartamento d’abitazione per gli uomini (dvdp@vitis, andronitis) era separato da quello delle donne (yuvamoviti, gkynaiktonitis) 0 gineceo.

V’erano anche, naturalmente, locali di ripostiglio o dispense (rawteta, famieia), stanze per gli ospiti ($e- v@veg 0 Koroves, xenones, koîtones), e altre se- condo i vari bisogni della famiglia. Nelle stanze e spesso qua e per la casa statue degli Dei fami- liari o nuziali (9e0ì pevé9Atot, vaurnhior, thedi ghe- néthlioi, gamélioi).

Lungo il lato esterno della casa si trovavano i locali di lavoro industriale (£&ovaotiowa, ergastéria) e le botteghe di vendita (rwAntHoa, poletéria), ac- cessibili naturalmente al pubblico.

14 INAMA.

210 Parte quarta

Stufe pel riscaldamento non se ne avevano. A tale scopo si usavano bracieri portatili (dvàodwa, fogioar, Eoyagides, raUrOL, anthrikia, escharai, escharides, kaminoî).

Il piano superiore (07re0@iov, Ayperoion), quando v'era, serviva d’abitazione, per lo più, per il padre e la madre, e in genere per la padrona di casa.

Il tetto della casa era orizzontale e piano, a guisa di terrazza, coperto con mattoni o con tegole (x&- gauor, negapides, kéramoi, keramides).

Esternamente le case erano semplicemente im- biancate (xoviaua, koniama), e tali pure erano, nelle case più modeste, i locali interni. Ma nelle case si- gnorili questi e le facciate esterne erano spesso varia- mente ornati e dipinti a brillanti colori (rowuZuarta, poikilmata), con fregi di metallo o d’avorio. Tal- volta esternamente la casa era circondata sulla pub- blica via da un marciapiede in pietra (A#00t00TA, lithòstrota).

Attiguo alla casa v’era frequentemente l’orto, col- tivato a legumi e a verdure di varia specie, per &so della famiglia; spesso ornato di fiori, rose, viole, giacinti, gigli e simili.

Ma queste condizioni di abitazione abbastanza larghe e comode mutavano non di rado nelle città, dove essendo assai limitato, in qualche punto, lo spazio, le case erano attigue o a ridosso l’una del- l’altra (olmia 6udtorgor, cikiai hombtoichoi), e a due o più piani, con locali assai piccoli, in confronto de’ nostri. Il che, per vero, recava minor disagio

i i i

Antichità private 2II

ai Greci, abituati com’erano a vivere molto più di noi fuori di casa. Nelle città dei tempi elleni- stici, costruite su appositi disegni e piani, con lar- ghezza di vie e di spazi, anche le case assunsero più ampie proporzioni, e soprattutto quelle signorili si distinsero per grandezza e lusso, con due o più cortili cinti da colonnati, con parecchie sale da pranzo (olko: towZiviot, rtevtaxdivioi, cikoî triktinioi, pentaklinioi), artisticamente dipinte e ornate di sta- tue, con pavimento a mosaico o a marmi di vario colore.

% 12. L'arredamento delle case signorili dell'età micenea, a giudicare da quanto si è potuto cono- scere dagli scavi archeologici di Micene, di Tirinto e delle vetuste città di Creta, era fatto con lusso orientale, e sia nelle forme, sia nella materia l’arte greca sentiva l'influenza dell’Egitto e della Babi- lonia.

Ma dopo i tempi micenei come nelle costruzioni così nell'arredamento delle case si ebbe maggiore semplicità. V’era tuttavia nelle case delle famiglie agiate in mobili e suppellettili tutto quanto potesse sodisfare non solo alle necessità, ma anche alle comodità della vita. Di più in ogni oggetto, anche nei più umili e modesti, traspariva il sentimento artistico e il buon gusto del popolo greco, in quanto v’era la tendenza di foggiare, con arte e con sa- gomature piacevoli alla vista, anche le parti degli oggetti domestici che non richiedevano ornamento alcuno, quali ad esempio i piedi de’ letti, de’ ta-

212 Parte quarta

voli, delle sedie e simili, i quali, anzichè rigidi e diritti, erano fatti a ricci e a curve graziose, ovvero in forma di zampe di leone o d’altri animali.

Il letto (xAirn, AZize), oltrechè per dormire, ser- viva pure nella sala da pranzo per sdraiarvisi di giorno, sia a mangiare sia per sedervi a leggere o scrivere; era spesso lavorato assai artisticamente, coi piedi di metallo o d’avorio. V’erano letti con due spalliere, cioè per due persone (x4irn augixé- ados, k. amphiképhalos), e anche a guisa de’ no- stri sofà a letto. Peri poveri il letto non aveva che il solo pagliericcio; ma i ricchi al disopra di questo ponevano, come noi, materassi (7047, Tu Agtov, xvépadov, tyle, tyleion, knéphalon) di lana, di crine, di piuma (srriZa, frila). Vi si stendevano so- pra pelli di pecora (x@òta, kédia) e di capra (ot 0vou, sisyrai) o coperte tessute (oto@uara, tarm- tes, stromata, tipetes). I materassi venivano appog- giati su cinghie di cuoio o di sparto tese da un lato all’altro della lettiera. I

Usavano essi pure i Greci cuscini per poggiarvi la testa (m00cxepdàiov o r000Keparzatov, proske- phalion, proskephalaion).

Le sedie comuni (digoor, diphroi) erano senza schienale, ma si avevano, per persone di maggior ri- guardo, sedie a bracciuoli (#00v0g, 74r0r0s), come le poltrone nostre, con schienale alto, e con lo sga- bello per i piedi (in C- nero: 901)vvs, vrrosrbdior, thre- nys, hypopédion). Non erano imbottite; ma per ren- derle più comode vi si stendevano o gettavano sopra

Antichità private 213

pelli di pecora, coperte o altro di simile. Erano pure conosciute le sedie a forbice chiudentisi in forma di chi maiuscolo (X) e portatili facilmente (6x4a- dia, okladiai), e sedie lunghe per sdraiarsi (At ouoi, klismbi).

Verano tavole (rodsegat, frapezaî) di varie forme, quadrate e rotonde, con uno, tre o quattro piedi (uovirodes, toimodes e terodrtodes, mondpodes, tri- dodes, tetrdpodes): di queste pure ve n’erano di semplicissime, e di artisticamente lavorate. Si ave- vano, invece di armadi e cassettoni, delle casse (Adovares, lirnakes), degli scrigni (xufotoi, kibotdi), delle cassettine (1foòror, Fibétion), e altri mobili somiglianti, che erano assai vari e per forma e per diversità di legnami e per lusso di lavoro.

Svariatissima per forma e per materia la suppel- lettile domestica, gli utensili di cucina, i vasi e 1 piatti per le mense. Grandissima varietà soprattutto di vasi di creta, di metallo, di pietra, di vetro, ecc.; elegantissimi molti per forme graziose e snelle; altri ornati mirabilmente con disegni e figure a vari colori, o con figure a rilievo, Essi prendevano nomi diversi secondo la diversa forma o secondo l’ uso cui dovevano servire. Verano grandi vasi a guisa di botti (2901, Sifhoi) di terracotta, per conservarvi il vino; le botti di legno, cerchiate, che noi usiamo, erano invece ignote ai Greci antichi. I fifkoî fini- nivano spesso in punta, perchè si potesse piantarli e fissarli sul suolo delle cantine.

Di minori dimensioni, ma varie assai di gran-

Secci

214

Parte quarta

dezza, erano le anfore, a due anse, per trasportare

Otnochoe, Vaso per vino.

liquidi; così pure 1’ ‘idria’, anticamente ‘calpide’ (vota, udirus, hydria, kalpis), grande brocca, che le donne porta- vano in testa, per attingere l’acqua alle fontane e ai pozzi. Elegante il ‘lecito’ (4:)xvdo0g, lékythos), vaso a collo lungo e ristretto per olii e unguenti. Il vino e l’acqua ponevansi in tavola in grandi catini, detti ‘crateri’ (x0ar)o, kratér), di forme e sagome assai svariate, e da questi attingevasi con una brocca, chiamata ‘eno- coe’ (oîvogon o frtowna, 0ino-

choe, ékpoma), per riversarlo poi ai singoli com- mensali nei bicchieri (srotijoia, foréria). Allo stesso

Kylix. Calice per vino,

scopo servivano altri recipienti analoghi: il ‘ciato’ (xiados, £yathos), specie di tazza, e il 'procoo’

Antichità private 215

(m0dyoos, frochoos), 0 brocca; e v’erano varie forme

AGathos. Tazza per attingere dal cratere.

kylix), il corno (6x0@0g, xaviagos, Kéoag, sSky- phos, kantharos, keras), ecc.

Canestri (xdaia00g, xdveov, xavobv, kala- fhos, kaneon, kanotn) si usavano per riporvi il pane, le lane da la- voro, altrisimilioggetti leggeri. Di pentole e pignatte di forme assai varie, di argilla, p. es. yitoa (ta chytra), 0 di metallo, p. es. il ‘lebete’ (A&fns, /edbes) di bronzo a tre piedi,

erano piene le case e le

dibicchieri : la fiala (gid47, phiale) e il calice (20AÈ,

Arsiballos, Vasetto unguentario.

Rhyton, vaso per bere, cucine pressochè di tutti.

216 Parie quarta

C'erano piatti (svivaneg, dioxot, Tobfha, pinares, di- skoî, trdblia) e scodelle (Xorrddia, lopidia) di metallo o di creta, per mangiare. Si trovano ricordati anche i cucchiai (uvorga, +2ystra), ma erano ignote le for- chette. C'erano bacini per lavare le mani (yé0vtp; yeovifiov, geoorurtoov, chernips, chernibion, chet- voniptron), vasche per bagno (mve40g, Aovrijoss, Aovijoa, pyelos, louteres, loutéria , grandi vasche per nuoto negli stabilimenti balneari (x0Zvuf}300, kolymbethra), ecc.; de’ quali i molti e vari nomi designavano varietà di forme e di dimensioni, che a noi in gran parte sfuggono oggidì, riusciamo a precisare. Di questi nomi non pochi passarono pure nell’italiano e in altre lingue moderne.

L’ illuminazione delle case si faceva da principio con torcie (datdeg, daides) o con padelle di pece; in seguito si usarono lampade (Aaurtt) ogg, lampteresì, e lucerne (Avyvot, /ycknoi) a lucignolo (uvrtio, mykiér), alimentate con olio, queste pure di forme svariatissime, eleganti, artistiche, di terracotta e di metallo, portatili a mano, o sospese in alto, i o poggiate su candelabri (Aiyvia, /Yckzia): tutto quanto insomma le esigenze più delicate di como- dità e di luce potessero pretendere.

In tutti questi oggetti d’uso domestico si rivelava il sentimento artistico e pratico insieme e il gusto squisito del popolo greco, nella semplicità ed ele- ganza delle forme, nella finezza del lavoro.

Anche in essi entrò poscia la moda, la ricerca affannosa del nuovo, del vario; soprattutto nell’età

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Antichità private 217

alessandrina ed ellenistica le influenze orientali v’importarono il lusso (t0vp:), ‘ry94é) asiatico, a pre- giudizio non di rado dell’arte e del buon gusto.

INDUMENTI (évdvua, pl. évdiuata, endyma, endjmata).

è 13. Due fattori influiscono soprattutto sul modo di vestire di un popolo, il clima del paese in cui vive, e il grado di civiltà in cui si trova. Nell’ età micenea pare che l’ influenza orientale si facesse sentire come in tutto il resto, così anche nella foggia delle vesti, e che queste fossero lunghe tuniche che avvolgevano tutta la persona e scen- devano fin quasi ai piedi; in seguito si vennero modificando.

Gli uomini indossavano una specie di camicia detta ‘chitone’ (yiròv, chilon), di stofla di lana, di colore per lo più bianco, grossolana e alquanto corta presso i Dori; di tessuto più fine di' lino (Aivods, linoiîs) e alquanto più lunga presso gli Joni; anzi alle volte giungeva fino ai piedi (10d)0yg, #0- deres). Era senza maniche, cosicchè le braccia ri- manevano tutte nude; l’uso delle maniche al chi- tone non fu adottato che dopo le guerre persiane, forse per influenza orientale. D’allora in poi si smise anche a poco a poco di portarlo lungo fino ai piedi, accorciandolo alquanto. Ve n’ erano di varie forme; la gente di campagna, i pastori e i poveri lo sosti- tuivano con pelli di capra o di pecora (dipdeoa,

218 Parte quarta

diphthera). 1l chitone si portava o interamente sciolto (0odoorddor, orthostadion) o stretto ai fianchi con una cintura.

AI disopra del chitone, il quale formava la sot- toveste, corrispondendo press'a poco alla nostra camicia, si portava l’ ‘imatio’, con nome più: spe- ciale detto ‘faros’ (g@o0s, Pharos), 0 la ‘claina’ (xAalva, chlaina) cioè sopravveste. La parola imatio (indtiov, himdtion), significava anche vestito in ge- nerale. Era formato da un ampio mantello, che si avvolgeva intorno alla persona, facendolo passare dalla spalla sinistra sulla destra; giungeva press’ a poco fino ai ginocchi. Presso gli Spartani questa sopravveste era detta ‘tribone’ (t0ifo0r, tolp@ror, tribon, tribònion): si usava più corta e, come tutte le altre vesti presso di loro, era di stoffa più gros- solana. Dell’ imatio v’erano forme varie; una di queste era la ‘clamide’ (yAayvs, cAlamys), pezzo di pannolino o di pannolana quadrato, quadrilungo o ovale, in uso soprattutto presso i Macedoni, i Tessali, gl' Illirii, che si adattava variamente alla persona a guisa di mantello, fissandolo con fibbie sulla spalla destra e lasciandone cadere, pioventi di qua e di là, i lati, a guisa di alette (srreod, atéovyes, pierd, piéryghes). Si portava specialmente dalle persone a cavallo.

L'influenza orientale, che già si era fatta sentire nell’età micenea, tornò a esercitarsi più o meno sul modo di vestire quando, dopo il VII e VI secolo, i Greci vennero a contatto coi Lidi e coi Persiani

Antichità private 219

nell’Asia Minore. S’ introdussero allora in Grecia nuove stoffe, nuovi tessuti, con nuovi disegni e colori; le foggie delle vesti cambiarono alquanto e furono adottati nuovi nomi per designarle. D’allora in poi andò anche sempre più perfezionandosi in Grecia l’ arte del tessere, del tingere e ornare i tessuti.

I fanciulli fino ad una certa età andavano quasi nudi (yvuvoi, ghynndi, che significa per lo più: in sottoveste); dopo i dieci o dodici anni portavano il chitane, senza l’ imatio.

% 14. Le donne vestivano una lunga camicia detta ‘chitonio’ (ytròwior, chitonion), di stoffa più sottile e leggera di quella degli uomini. Era senza maniche, e fissata sulle spalle con aghi o fibbie (1re06vmn, pl. teodvat, perone, peronai), presso i Dori; presso gli Attici invece era per lo più cucita e aveva anche, più o meno lunghe, le maniche. Una larga cintura ($@veov, 267zi0n) la serrava alta sopra i fianchi, tenendo luogo pressa poco del busto, che por- tano le nostre donne. Da ciò gli epiteti, che i poeti danno spesso alle donne greche, fadugoros, fa- VixoAros, come è stato detto a suo luogo nel capi- tolo La Grecia d’Omero”.

Anche le donne portavano sul chitonio una so- pravveste chiamata ‘ampecone’ (àysteg6vy o éri- PANnua presso gli Attici, dusmréyovov presso i Dori, ampechone, epiblema, ampéchonon).

Le donne usavano pure il peplo’ (rr&rÀ0g, feplos), una specie di manto di lana, che corrispondeva

220 Parte quarta

nella parte essenziale al chitone dorico. Come so- pravveste o mantello, specialmente come abito di gala, il peplo era portato anche dagli uomini.

Mentre le stoffe per i vestiti degli uomini erano per lo più di lana, quelle per le vesti delle donne erano ordinariamente di lino. Ma ve n’erano di miste in modo vario, distinte con nomi diversi, quali il ‘bisso’ (fY000g, bysso0s), il ‘sindone’ (cvò@r, sindòn); e più tardi si ebbe la seta proveniente dal- India, e il cotone (xdgraoogs, kirpasos, indiano karpésa).

Colore preferito era il bianco; ma le donne usa- vano una grande varietà di colori diversi, il por- pora, il giallo (x0oxotà iudtia, krokotà himatia), il verde oliva (Gugarnd, omphanikti). Stoffe variopinte (romida, poikila), a vistosi disegni e fiorami (dv&vd, àvdicuata, anthind, anthismata) amavano le etére (gtatgat, hetairai, cioè amiche, le cortigiane). Vi erano pure negozi di vestiti (iuattorm®Aa,, Ahimatio- polai) e sarti (xvagpevs, bpavtns, knaphéus, hyphantes); e il commercio di tutto ciò che si riferisce a in- dumenti d’ogni specie era fiorente e diffuso. Tut- tavia l'antico costume che la tela e certe stoffe or- dinarie fossero tessute in casa dalle donne, e così pure che da queste fossero fatti anche i soliti ve- stiti per tutta la famiglia, continuò sempre nelle famiglie popolari di modesta fortuna e nelle cam- pagne.

$ 15. CAPPELLI E Scarpe. Gli uomini usci- vano di casa per lo più a capo scoperto; ma in

Antichità private 221

certe occasioni speciali portavano cappelli vari di forma e di stoffa. Così p. es. in viaggio coprivano il capo col ‘petaso (7réracos, fétasos), cappello a larghe tese, che riparava dal sole e dalla pioggia; il ‘cinea’ (xuven, kyzee) era invece una specie di berretto, o elmetto di pelle molto resistente; il ‘pilo’ (ikRos, pilos), altro berrettone di forma conica.

Le donne si coprivano il capo con una reticella di lino, detta “cecrifalo’ (xexovpados, kekryphalos), ma in ciò l’uso variava da paese a paese. Le fan- ciulle andavano a capo scoperto, coi lunghi capelli annodati in vario modo sul capo con un legaccio speciale, detto ‘mitra’ (uitoa, m:ilra) o con nastri (raviai, taniai), fissati con spilloni d’osso (cgpevdor, o otàeypis, pl. oràevyides, sphendone, stlenghis, stleng hides) d’argento o d’oro o di metallo dorato, spesso in forma di cicale (téttyes, féttighes). Por- tavano anche i lunghi capelli disciolti, che scen- devano arricciati, in varia forma e nome, sul collo e sulle spalle (7rAdxapuot, mAoxddeg, xixivvot, Tao tiòes, ‘bande’, f6otovyor, plbkamoi, plokades, kt- kinnoi, parotides, bostrychoi), ecc.

I calvi usavano, come oggi, portare parrucche (rrooxbuiov, reo éTn, EvtoLgov, prokbmion, perithete, éntrichon); i canuti tingersi i capelli.

Per ripararsi dal sole le donne usavano ombrel- lini (oxtddeta, sk/adeia), portati da schiave.

Glì uomini solevano portarela barba intera (r1@yww, pogon), e i baffi (udoraf, mastax), o anche la sola barba al mento (yevetor, eheneion).

222 Parte quarta

Frequente era l’uso per gli uomini e per le donne del popolo di andar scalzi (dvurdòntos, anypodetosì. La calzatura (irrodi)uara, hypodémata) più comune era il sandalo (sred:Za, c&vdaAa, cavdaria, pédila, sandala, sanddlia), ma si calzavano pure scarpe (xonzis, pl. xonaides, krepis, krepides) e stivali (xidogvo, kòthornoi) di varie forme, di pelli e ma- terie diverse, e di diversi colori. Basti ricordare il mimiambo di Eronda intitolato 7/ G alzolaio, ove c'è una lunga serie di nomi di varie calzature di donna, di cui non riusciamo a distinguere le molte forme diverse. Del resto fra il modo di calzare dell’uomo e della donna non v'era grande differenza.

Gli uomini portavano pure, come noi, canne e bastoni (farmi)owor, Bartnpia, oxirto»v, daktérion, batteria, skipon, lat. scifio); e le donne si orna- vano, come le nostre, con anelli alle dita (daxtbAtOg, dakiJlios), braccialetti (wé%ov, psélion) e collane lunghe (60408, 4orm0s) o brevi (i094u10v, isthmion) al collo, con grande varietà di forme e di nomi.

ALIMENTI, SIMPOSII.

% 16. I Greci solevano mangiare tre volte al giorno, alla mattina, verso mezzogiorno e alla sera. Il primo pasto, il quale per lo più consisteva in pane inzuppato nel vino, era detto ‘aristo’ (dorator, ariston); il secondo, che era il pranzo propriamente detto, ossia il pasto principale della giornata, era

I RE ET A n ST

Antichità private 223

detto ‘deipno’ (òetrvrov, deipnon), e l’ultimo, che si prendeva dopo il tramonto, era detto ‘dorpo’ (Séorrov, dorponì, e corrispondeva alla nostra cena. Ma questi nomi, che troviamo già in Omero, ven- nero più tardi mutati: fu chiamato ‘deipno’ il pasto della sera, ossia la cena, e “aristo mattutino (70@}- vòv dototov, proînòn d.) la prima colazione e ‘aristo meridiano’ {dototov ueolufoworv, d. mesémbrinon) il pasto di mezzogiorno.

Il pranzo consisteva ordinariamente in pane d’orzo (nata, maza), farinata d’orzo (dAgirov, dlphiton), carne e verdura. I Greci usavano molto carne di maiale, ma mangiavano anche oche e galline; e conoscevano pure l’uso della carne insaccata e de’ salumi; mangiavano pure pesci di mare: ri- nomate erano le anguille del lago Copais (éyvy£4et Koraildeg, encheleis Kepaides) nella Beozia. Tra le verdure avevano la preferenza i legumi e le cipolle,

Si conoscevano varie qualità di formaggio e di frutta. Tra queste erano assai apprezzati i fichi (oîxa, syta) e le olive dell’ Attica, di cui facevasi anche grande commercio d’ esportazione; nonchè le mele cotogne (unA4a Kuvdmbva, mela Kydonia) e le melagrane (0iò7, dod, side, rhod).

Non conoscendo lo zucchero, i Greci facevano grande uso di miele in cucina e a tavola; e con miele e farina impastavano torte diverse (srAax06y- tes, méuuata, flakountes, pemmata).

Eccellenti erano i vini, e assai rinomati quelli di Chio, di Lesbo, di Taso, di Rodi e di parecchi

224 Parte quarta

altri luoghi. Ma siccome i vini greci sorio molto forti e alcoolici, così usavasi mescolare il vino col- l’acqua.

$ 17. In occasioni festive e solenni alla cena teneva dietro il ‘simposio’ (cvustootov, symposion).

Sgombrata la tavola da ogni apparecchio della cena, veniva portato in un grande cratere il mi- glior vino di casa, e imbanditi gustosi manicaretti, dolciumi e frutta d’ogni specie.

Prima d’ incominciare a bere i convitati si lava- vano le mani, facevano rituali libazioni (orrovdai, sponddi) e purificazioni, intonavano in coro un peana di preghiera a Zeus salvatore (Zeòs c@m)o, Z. sotér), e si ponevano poi a sedere, cioè si sdraiavano sui letti (xAivat, ZZinaî), che circondavano da tre lati (perciò rowAiviov, triklinion era detta la sala) la tavola. Uno de’ convitati era scelto quale re del banchetto o simposiarco? (faotZevg, 0vusodIaggOSI basiléus, symposiarchos), affinchè regolasse 1’ anda- mento di esso e dirigesse così la conversazione tra” commensali, come i canti loro. Giacchè e di lieto conversare e di allegre canzoni e di brindisi, detti ‘scoli’ (cuéAia, skolia) o canti conviviali, constava appunto il simposio. Gli scoli erano cantati in coro da tutti i presenti, ovvero, secondo le norme date dal simposiarco, erano cantati per turno, a uno a uno dai singoli convitati (xatà sregiodov brodogis, katà periodon ex hypodochés), o anche senz’ordine, a sbalzi or dall’uno or dall’altro, quasi procedendo a zig zag, o a sghimbescio, e non nel-

Antichità private 225

l’ordine in cui erano seduti a tavola i. commensali : dal che appunto qualcuno credette che fosse deri- vato il nome a tale specie di canzoni conviviali, poichè ‘scolio’ (0x6Au0g, sEdlios) significa appunto obliquo. La conversazione era naturalmente assai varia secondo l’indole, l'umore, la cultura, 1’ edu- cazione dei convenuti; ma è naturale che le que- stioni politiche, sociali, letterarie, artistiche e filo- sofiche del giorno formassero di sovente argomento principale dei discorsi nei geniali banchetti della società più eletta e colta d’Atene, come ancor oggi ci mostrano i Simposii di Platone e di Senofonte. Anche le sciarade, gli enigmi, gl’indovinelli (y0%po6, Aoyoyolpor, griphoi, logogriphot) proposti da scio- gliere allietavano non di rado queste riunioni; erano esclusi i giochi, quale, p. es. quello del ‘cottabo’ (xértafos, kéttabos), comunissimo, con- sistente nel gettare da una tazza le ultime gocce di vino in piccole coppe messe in bilico o in cima a un bastone metallico o sopra una statuetta o gal- leggianti in un recipiente pieno d’acqua: bisognava fare in modo che le coppe pencolassero o cadessero o affondassero.

OCCUPAZIONI, INDUSTRIE, COMMERCI.

% 18.—Varie le occupazioni, i bisogni, i gusti degli uomini secondo le diverse classi sociali. Ma l'eser- citare un’arte o una professione, anche liberale, fu

15 INAMA,

226 Parte quarta

n considerato per lungo tempo presso gli antichi Greli

come cosa poco degna e decorosa per un cittadino libero. Tuttavia col tempo questo orgoglioso pre- giudizio cessò, e si venne formando anche fra’ cit- tadini una classe di lavoratori e di professionisti, che si facevano retribuire per l’opera da loro pre- stata. Le arti manuali del fabbro, del falegname, del calzolaio, del sarto e simili erano per lo più esercitate in Atene dai meteci, a Sparta dai perieci, e ovunque altrove dai forestieri; così pure i me- Stieri più umili, detti ‘banausi’ (Pavavoia, da fid- vavoos [banausia, binansos] caminetto’, perchè esercitati in casa, e da gente sedentaria) erano di- simpegnati dai forestieri o dagli schiavi.

I cittadini esercitavano bensì l’industria e il com- mercio, ma come proprietari di case commerciali o di officine iridustriali, da loro condotte 0 dirette, mentre il lavoro materiale in esse era fatto da schiavi o da operai non cittadini.

Invece il piccolo commercio (xammÀewa, xastnA0g, kapeleia, kapelos) di rivendita a bottega era dai cittadini riguardato con un certo quale disprezzo e tenuto in poco conto come indegno di loro.

Non così il commercio all’ ingrosso e in grande, detto ‘emporia’ (é&uropia, éusto0os, emporia, ém- foros), soprattutto se commercio marittimo. A. questo anzi dovettero la loro prosperità e potenza e ricchezza molti Stati greci, primi fra tutti Corinto e Atene, e le loro molte colonie. Tale commercio rese per qualche tempo floride e prosperose Delo

Mie rat

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e Lemno, Egina, Chio e molte altre isole e città. Ma dopo le guerre persiane Atene tenne su tutte incontrastato il primo posto. Nel Pireo era stato costruito un edifizio speciale per mettervi in mostra, a guisa di esposizione permanente (delyua, deigma) e campionaria, le nuove merci importate.

Appunto per vigilare sopra questo commercio d’oltremare coll’ Ellesponto, importantissimo per Atene, essa creò una magistratura apposita, che lo regolasse e promovesse, detta dei ‘custodi dell’Elle- sponto’ (‘E4ZyormovtopiAanes, Hellespontoph)lakes). Dopochè decadde la potenza marittima di Atene, il commercio greco rifiorì rigoglioso prima in Rodi, poi in Alessandria e nelle grandi città degli Stati sorti sulle rovine dell’effimero impero di Ales- sandro Magno.

DIVERTIMENTI E GIUOCHI.

3 19. I Greci conoscevano fino dai tempi più remoti un gran numero di giuochi. Antichissimo e giuocato con molta passione in ogni tempo fu il giuoco detto ‘pessia, pettia’ (meoceia, smerrzia, desseia, petteta), una specie di dama o di scacchi nostri. Era giuocato in due maniere: con cinque pietruzze (sre0G0Ì, yipor, pessdi, psephoi) o dame di diverso colore, bianche e nere, disposte sopra un tavoliere diviso in caselle, o scacchi, dette ‘posti’ o ‘città’ (yoqai, 0Aeg, chorai, poleis). Le pietruzze

228 Parte quarta

venivano disposte su cinque linee (yoaupal, grami mai), delle quali era detta ‘sacra’ (ieod, rierd) quella di mezzo; ovvero veniva giuocato con trenta pietruzze. Come si svolgesse propriamente il giuoco non sappiamo; le pedine o dame dell’avversario venivano tolte di mano in mano dal vincitore, le- vandole (&vawety, anaîrein) dalla scacchiera o ta- voliere, o erano imprigionate dai pezzi suoi in modo che non potessero più muoversi e fossero fuori di giuoco (aronAziew, àrotéuvetv, apokleicin, apotem- nein).

Molto in uso era pure il giuoco dei dadi (x0foy, uvfeia, kyboî, Aybeia), a sei faccie, come i nostri, su ciascuna delle quali era segnato un numero; o a quattro faccie sole piane, detti allora astragali? (dotodyalo:. astrigaloî), e a due faccie, corrispon- denti, arrotondate, in modo che su quelle il dado non potesse fermarsi. I dadi venivano gettati, pre- cisamente come oggidì, sopra il tavoliere (dBas, dfauov, abax, abdkion) per mezzo di un bossolo (migvos, piuds, Pyrgos, phimbs) o a mano libera. Ogni getto aveva un nome suo proprio: il getto più favorevole al giuocatore, vale a dire col nu- mero maggiore di punti, era detto ‘Afrodite’ (Apoo- ditn) © K60g (Adhrodite, Koos), 0 getto regio ? {Pacrdinòg Bohos, basilikòs bolos); il peggiore era detto ‘cane’ (x00v, Zyon) o ‘vino? (0lvos, vinos), forse perchè a chi perdeva toccava pagare da bere all’avversario.

Giocavasi pure a pari e dispari, tenendo stretto

RE RAEE ene TN

Antichità private 229

nel pugno chiuso un certo numero di piccole mo- nete o di piccoli oggetti, e facendo indovinare al- l'avversario se fossero in numero pari o dispari; ovvero, ciò che rendeva più rischioso il giuoco, facendone indovinare il numero preciso (dora $ew, Guvà 7) dbtvya, udva wai Guyà, artiazein, 2ygd e dzyga, mona kai 2ygd).

Anche i giuochi all’aria aperta erano usati e amati dai Greci, come p. es. il giuoco della palla (cpaztoa, sphaira); a non tener conto dei molti e vari giuochi de’ fanciulli di cui abbiamo già toccato.

I Greci conoscevano pure il divertimento dei com- battimenti dei galli, al quale il pubblico s’interes- sava assai, facendo alle volte scommesse anche vi- stose di danaro.

Ma fra i più divertenti giuochi della gioventù greca sono da porre gli esercizi ginnastici e la caccia.

VIAGGI.

% 20. Non tutte le stirpi greche furono ugual- mente amanti del viaggiare. Gli Spartani in com- | plesso viaggiavano poco; i giovani spartani anzi non potevano uscire dai confini del loro Stato senza chiedere il permesso agli efori. Assai più amavano viaggiare gli Ateniesi. Viaggiando per terra i più andavano a piedi, ma non era raro il caso che le persone più agiate viag-

230 Parte quarta

giassero a cavallo (#Aavvew, elaunein) e sul carrbi il quale era per lo più a due ruote (6eD'os, zene0s) quello a quattro si chiamava àmmjvn, apene), e tirato più spesso da muli che da cavalli. Chi viaggiava a piedi si faceva di regola accompagnare da uno O più servi, che portassero tutto quanto occorreva e per cibarsi di giorno e per dormire di notte; quindi arnesi vari (oxein, skene), coperte (oto@UATA, stròmata) e altro, giacchè alberghi, dove trovare ricovero lungo la via, da principio non v’erano nem- meno nelle città, nonchè nei villaggi. In compenso era esercitata ovunque largamente l’ospitalità verso i forestieri. L'ospite era considerato come sacro è inviolabile, ed era accolto benevolmente, anche se affatto sconosciuto, e aiutato in ogni miglior modo, Le conoscenze e le amicizie contratte in occasione di ospitalità, data o ricevuta, duravano salde tutta la vita; anzi passavano come sacra eredità da una generazione all’altra. Col tempo sorsero anche nelle città e lungo le strade più percorse da viaggiatori alberghi (ravdoneta, dandokeia), ma furono sempre assai modesti, godettero mai molto credito; co- sicchè quasi tutti preferivano l'ospitalità degli amici o dei parenti. Nei luoghi ove avvenivano riunioni periodiche di molta gente e dove era grande l’af- fluenza de’ forestieri, come p. es. ad Olimpia in occasione delle grandi feste nazionali, o a Delfo 0 in altri centri religiosi, v’erano edifizi appositi per accogliervi e ospitarvi i visitatori (xatayoyiov, kata- goghion); così pure presso i più rinomati e frequen-

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tati tempî e santuari, come p. es. presso il tempio di Afrodite a Gnido, di Era a Platea, ecc.

Più frequenti e più lunghi erano i viaggi per mare. Le navi da viaggio erano alquanto diverse dalle navi da guerra; queste erano più lunghe (uaxod ràota, makrà floia), quelle molto più arrotondate, colla prora e la poppa ricurve e assai rialzate (rrA0ta ctooyyiAa, p. stronghyla). Erano naturalmente mosse a vela, ma se mancava o cessava il vento, si do- veva spingerle innanzi a forza di remi (x@gra, kopai). Era quindi nècessario per ogni nave un gran numero di rematori, seduti, perchè non occupassero troppo spazio, su due o tre ordini di banchi sovrapposti l'uno all’ altro, Il pilota (xvfsovijeys, Aybernetes) stava a poppa; il timone era formato da due lunghi remi (mydalia dio, pedalia dyo), a larghe pale, co’ quali egli dirigeva la nave. A prora stava un guar- diano (00geis, rowodtgs, proréus, prorates), da lui dipendente.

MEDICI.

è 21. Fino dai tempi più antichi troviamo in Grecia la medicina esercitata come professione spe- ciale. Omero ricorda nell’//iade, II 732, come va- lorosi medici Macaone e Podalirio, figli di Asclepio (Esculapio), principe di Itome in Tessaglia, e valen- tissimo medico, che aveva appreso l’arte da Chirone. I medici erano annoverati tra’ professionisti ($yuovo-

232 Parte quarta

yoi, demiourg6i), che esercitavano l’arte loro por trarne guadagno. Ma poichè le malattie, e le malattle contagiose o epidemiche soprattutto che menavano strage nella città e nell’ intero paese, erano consi. derate come punizioni e flagelli mandati dagli Del, così agli Dei si chiedevano pure i suggerimenti @ | rimedi per la guarigione. In tal modo l’ufficio del medico venne in parte a confondersi con quello del sacerdote, e le cure furono fatte più col mezzo di preghiere, sacrifizi e scongiuri che non con ri medi terapeutici. S’ inalzarono tempî agli Dei sa lutari, principalmente ad Asclepio divinizzato. Pressa il tempio sorsero edifizi appositi per accogliervi @ curarvi gli ammalati, detti Asclepiei ? (AoxAnzmeta, Asklepieia), specie di case di cura. Quivi le pra- tiche igieniche e terapeutiche s’ intrecciavano in modo strano con le superstizioni religiose, e un ri tuale simbolico minuzioso, più che una razionale applicazione de’ rimedi regolava la cura. Bagni, diete e digiuni rigorosi, frizioni e unzioni con so» stanze oleose davano principio a questa; seguivano preghiere e sacrifizi nell’interno del tempio al Do Vittime preferite erano il montone, il gallo, la gallina. Si faceva in modo che o per semplice sug gestione o per esaurimento di forze, o per altri mezzi, artifizi e incantesimi (£n@dai, epodai), a noi ignoti, l’ammalato cadesse in una specie di sonno ipnotico. I sogni, che durante esso egli faceva e che raccontava poi ai sacerdoti, venivano da questi raccolti e interpretati a modo loro. In tale inter-

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Antichità private 233

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pretazione era anche suggerita la cura che avrebbe dlovuto rendere la salute all’ infermo. La cura per lo più consisteva in purgativi d’ogni specie, abbon- ddanti salassi, fregagioni e bagni, non certo privi del tutto di efficacia terapeutica. Come per gli ora- coli, così per queste case di cura semireligiosa o leratica riesce a noi impossibile distinguere quanto vi avesse di buona fede e quanto di ciurmeria nei sacerdoti-medici di Asclepio. Certo è che gli amma- lati accorrevano sempre in gran numero e che ri- nomati Asclepiei v’erano in ogni parte di Grecia: a Epidauro, a Pergamo, a Sicione, nella Tessaglia soprattutto, e lauti guadagni si ritraevano dalle cure. Oltre ai sacrifizi, le persone agiate che ne partivano guarite lasciavano ricchi doni e voti pre- ziosi al tempio, e generosi compensi ai sacerdoti. Alle colonne e alle pareti del tempio erano appese tavolette votive, che ricordassero con iscrizioni e con figure dipinte le guarigioni ottenute miracolo- samente per benefizio del Dio; in luogo delle ta- volette si ponevano talvolta figurine in creta, in legno, in metallo, che riproducessero in piccolo mani, braccia, piedi, gambe o altre parti del corpo, a perpetuo ricordo delle lesioni e malattie guarite.

a questa specie di medicina ieratica fondata sugli incantesimi, sulle suggestioni religiose, sulla fede cieca in un aiuto soprannaturale, miracoloso ricorrevano solamente le persone superstiziose; pos- siamo dire che fosse questa la medicina dei più. Tuttavia accanto ad essa continuava a svolgersi, a

234 Parte quarta

crescere e progredire anche la vera arte medica (atomi) ten, iatrichè fechne) 0 scienza come noi diciamo. Questa, approfittando anche del ricco ma- teriale di osservazioni e di fatti raccolto nei tempî di Asclepio e sceverando in esso ciò che era frutto di sicura esperienza da ciò che era crassa e igno- rante superstizione, riuscì a creare una disciplina terapeutica razionale e positiva degna veramente clel nome di scienza, e una classe di medici (atooi, fatròi) meritevole di ogni considerazione e fiducia. Ippocrate di Cos (circa il 470 a. C.), che apparte- neva appunto a una famiglia sacerdotale dedicata al culto di Asclepio, fu il primo che compose trat- tati teorici di scienza medica, e fu il fondatore di una scuola che fiorì a lungo e godette, merita- mente, d’un grandissimo credito in tutta la Grecia,

Medici ve n’ erano di pubblici, o come noi di- remmo governativi (Onuocievovteg, demosietiontes), e di privati ((dwrevovtEg, idiotettontes), che prestavano l'opera loro solamente a singole famiglie, ricche o principesche, La medicina e la chirurgia erano eser- citate dallo stesso medico. Di più egli di solito preparava da e vendeva i propri medicinali; e molti di essi avevano anche loro proprie case di salute (faroeia, iatreia), ove davano consulti e acco- glievano in cura gli ammalati. In queste case v'e- rano e farmacie e bagni e tutto quanto occorresse per raggiungere meglio lo scopo per cui erano state fondate,

Non era punto sconosciuta agli antichi Greci }'ef-

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ficacia salutare delle acque termali, salse, solforose, ferruginose, medicinali in generale. Stabilimenti di bagni e luoghi ove si bevevano acque curative ve n'erano in parecchie regioni del paese.

Non mancavano nell’antica Grecia, v’erano anzi numerosi i ciarlatani di mestiere, i ciurmadori, le fattucchiere, e simil sorta di gente, che esercita- vano abusivamente l’arte medica, facendo a fidanza con la cieca credulità della moltitudine, e gettando il discredito sulla scienza vera e seria.

FUNERALI.

è 22. - Quand’uno veniva a morire, gli si chiude- vano gli occhi e la bocca dai parenti che lo assi- stevano, gli si copriva il volto con un velo e gli si metteva in bocca una piccola moneta, detta ‘de- cane’ o ‘nolo’ (deu, vadlov, dekane, naulon), affinchè egli potesse pagare a Caronte, che doveva tragittarlo al di del fiume Stige nei luoghi inferi, il prezzo del passaggio. Il cadavere lavato, ripulito, profumato e inghirlandato, e avvolto in un lenzuolo bianco veniva esposto (s0octidecdar, ro6devig, pro- tithesthai, prothesis), il giorno dopo nella parte an- teriore della casa, sopra un letticciuolo (x4ivn, 4Zize) ricoperto di un lenzuolo di lino bianco (ga00g, pha- ros). Presso al cadavere si collocavano vasi di un- guenti odorosi e di profumi, e un recipiente di ter- racotta (47jxv9og, /ékythos) ripieno di acqua per le

236 Parte quarta

purificazioni rituali (4oddvuov, ardénion) e aspersioni di coloro che si accostavano. Parenti e amici accor- revano a vedere per l’ultima volta e a dare l’ultimo addio al caro defunto, e intorno ad esso levavano pianti e lamenti (ydot, dovr, yoai, gori, Ihrenoi, godi). A tale scopo erano invitati appositi cantori e cantatrici (J9nv@doi, Areroddi), che venivano per lo più retribuiti per le nenie che intonavano intorno all’estinto. Due o al più tre giorni dopo aveva luogo il trasporto funebre (&xpood, ezptord), di solito fatto all’alba, prima che si levasse il sole, non dovendo questo illuminare coi suoi raggi il cadavere, che era trasportato scoperto sul cataletto. I delinquenti condannati a morte venivano invece trasportati alla sepoltura di notte,

Il cadavere era portato a spalla dai parenti o dagli amici più intimi; in mancanza di questi, e assai di rado, da necrofori (vex0ogdooi, nekrophoroî), stipendiati, I cadaveri dei valorosi caduti combat- tendo sul campo di battaglia erano trasportati su carri, adagiati in bare, aperte, di cipresso.

Il funerale era accompagnato dal corteo de’ pa- renti e degli amici vestiti a gramaglia: precedevano gli uomini, seguivano le donne vestite di nero, e prive d’ ogni ornamento sfarzoso. Suonatori di flauto e cantori, che intonavano meste canzoni funebri, aprivano il corteo nei funerali delle per- sone ricche.

I cadaveri erano o seppelliti (94, xatORUTTEW, thaptein, katoryttein) o cremati (xaiew, kaiein). Circa

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all’uso dell’inumazione e della cremazione de’ morti vi sono ancora molte incertezze, sappiamo se l’una abbia preceduto per un certo tempo l’altra, o se siano esistite contemporaneamente o se l’una sia stata speciale a certe parti della Grecia, l’altra a certe altre.

Nell’ età micenea i cadaveri, almeno quelli dei principi e dei ricchi, erano sepolti, non abbruciati; anzi venivano conservati con una specie d’ imbal- samazione, nella quale entrava come ingrediente abbondante il miele. La faccia del morto era rico- perta da una sottile lamina d’oro, che vi si adat- tava e foggiava a guisa di maschera. Accanto al cadavere erano depositate nella fossa armi, utensili di varia specie e ornamenti preziosi. La fossa era scavata o nel terreno o nella viva roccia, e vi si erigevano sopra tombe grandiose a cupola, artisti- camente lavorate e ornate, delle quali si rinvennero i resti a Micene, ad Argo, a Vafio nella Laconia, a Orcomeno nella Beozia, a Volo nella Tessaglia, e altrove. Nei tempi posteriori anche le tombe ebbero dimensioni e forme più modeste e furono assai meno dispendiose.

L’incenerimento de’ cadaveri è già ricordato in Omero, e forse quest’ uso era generale e comune in tempo di guerra. Nei tempi normali invece pare che i cadaveri venissero sepolti e non cremati.'La cremazione si faceva sul rogo (7001), Tvoxatn), pyré, pyrkaté) fra libazioni sacre (yoai, chodi) e canti funebri.

238 Parte quarta

I cadaveri, o le ceneri loro, erano deposti in casse (Adovaé, c00ds, larnax, soròs) di legno o urne (Jjuai, thekai) di terracotta o di marmo, più o meno artisticamente lavorate. Nella bara venivano messi vasì lacrimatori, vasetti d’unguenti aromatici, lucerne accese, e in generale oggetti e cose che fossero stati specialmente cari in vita al morto; per le donne specchi e gioielli.

Le tombe (riufo:, zouata, x0À@vot, tymbot, chd- mata [propriamente ‘tumuli "], Eolondi) erano col- locate fuori di città e dei villaggi, in aperta cam- pagna, per lo più lungo le strade, Dapprima si usa- vano semplici colonnette (otmAa, rioveg, stelaî, kiones); poi si ebbero monumenti grandiosi, ricchi, suntuosi, dove l’arte spiegava tutto il tesoro delle sue risorse in statue, in sculture, in vaghi motivi architettonici; e dove iscrizioni ed epigrafi ricorda- vano le virtù e le opere del defunto e il lutto e il pianto de’ parenti. Intorno alle tombe v'era |’ uso di piantare alberi, quali cipressi e olmi, e di col- tivare fiori, quali rose e giacinti, che confortassero di ombre e di grati profumi la mestizia del luogo.

Sulla tomba, nei primi giorni successivi alla se- poltura e negli anniversari della morte dell’estinto, i parenti e gli amici deponevano offerte e mesti ricordi (8vrdqua, entaphia) di varia specie, corone di fiori, ciocche di capelli recisi; vi si facevano li- bazioni di vino, di latte, di miele (xoai tgiarmordot, chodi trispondoi), talora anche sacrifizi di vittime animali (aiuarovoiat, haimakouriai). Un primo sa-

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crifizio funebre (&vdyicua, endghisma) si celebrava il terzo giorno, un secondo nel nono, un terzo nel trigesimo dalla morte. Altri si offrivano nella com- memorazione de’ defunti, che in Atene ricorreva il 5 del mese boedromione,

Dopo il funerale aveva luogo il banchetto fune- bre (segideutov, pertdeipnon), o nella casa stessa del morto, o in casa di un suo prossimo parente; vi prendevano parte, invitati, i congiunti e gli amici più cari. Durante il banchetto venivano ricordate le virtù del defunto, a conforto del dolore e ad esempio di chi rimaneva. Il lutto aveva la durata di undici giorni in Sparta, di tredici (tovaxdg, Lriakds) in Atene; lo chiudeva un sacrifizio solenne.

Solenni funerali per cura dello Stato erano resi ai prodi morti sul campo di battaglia, combat- tendo in difesa della patria. Un oratore, scelto tra’ più valenti, ne celebrava le gesta e le lodi, con orazioni ispirate ai più nobili ed elevati sentimenti patriottici. Alcune di queste orazioni funebri, dette epitafi’ (&mrtdagior Adyor, epitaphioi logoi), giun- sero fino a noi, e basterà ricordare quella che ri- porta Tucidide attribuita a Pericle, e l’ epitafio di Lisia.

Il culto dei morti fu in generale assai vivamente sentito dai Greci antichi.

Mausoleo di Alicarnasso, Tomba di Mausolo, re della Caria (362 a. C.; ricostruzione ideale).

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Frontone del tempio di Egina (gli

neti nel Museo di Monaco).

Acropoli di Atene.

Acropoli di Atene,

Il Theseion in Atene,

Rovine del Partenone,

Teatro di Dioniso in Atene,

Veduta generale di Olimpia (ricostruzione ideale).

Ingresso alla tomba degli Atridi, detta il Tesoro di Atreo.